di Salvo Taranto
Questa storia è un pallone di fango: viene calciato in Brasile da un piede scaltro e robusto, senza vergogna; rimbalza in Sicilia provocando uno strano tonfo, rabbioso, amplificato dalla memoria del dolore; e poi rotola, rotola fino ad arrestare la propria corsa a Parma dove, inevitabilmente, si sgonfia. Come ogni vicenda che ruota intorno alla mafia, tra i protagonisti compaiono sciacalli, indignati, distratti e silenziosi. Nulla di nuovo, in fondo, ma è giusto raccontarla comunque, perché alcune storie sono domande rivolte anche chi non intende ascoltarle. Eccola.
C’è un marchio di abbigliamento brasiliano denominato “La bella mafia”. E c’è un’azienda del Parmense che, fino a qualche giorno fa, ne curava la distribuzione in Italia. Poi, complice un servizio del TG1 che dà voce allo sdegno esploso in Sicilia, la decisione di sospenderne la vendita, con effetto immediato, e di marcare la distanza: “Ci scusiamo per eventuali pregiudizi arrecati direttamente o indirettamente a terzi. Ribadiamo che non siamo in alcun modo legati al brand Labellamafia, marchio di proprietà della ditta Fitgirls Brazil Corporation”, si legge sul sito dell’impresa.
Rivedendo alla moviola la traiettoria del pallone, quindi, assistiamo prima alla devastante follia, all’indecenza di chi utilizza a fini commerciali un nome che evoca lutti, sangue, lacrime ed eroismo; subito dopo l’inquadratura si sposta su chi non accetta che si possa lucrare sulle ferite ancora aperte di un’isola che la mafia non l’ha incontrata soltanto al cinema o in tv, ma nei marciapiedi sui quali nevicavano cadaveri, nelle lamiere incandescenti delle auto saltate in aria, nei negozi bruciati, negli ospedali fatiscenti, nella bellezza sventrata dall’edilizia selvaggia, nei biglietti dei treni comprati per vincere, altrove, la lotteria del lavoro. Sono soprattutto i siciliani a scandalizzarsi, a mostrare le cicatrici sulla loro pelle e chiedere che si metta fine allo scempio. Infine, anche se le immagini diventano improvvisamente sfocate, l’azione si sposta e si conclude a Parma dove – salvo le scuse necessarie e la marcia indietro dell’azienda che distribuiva il marchio – tutto tace. E allora bisogna che questo racconto ponga due domande: com’è possibile che si associno le parole “bella” e “mafia” addirittura per trarne profitti? Perché quella collera proveniente dalla Sicilia non ha mai raggiunto la città ducale?
Entrambi gli interrogativi, forse, hanno la stessa risposta e, per comprenderla, serve transitare dalla Germania. Un ristoratore, a Francoforte, sceglie di intitolare la propria pizzeria “Falcone e Borsellino”. Ma non si tratta di un omaggio. Sulle pareti del suo locale, infatti, oltre a dei buchi che simboleggiano dei fori di proiettile, appaiono le foto dei due magistrati accanto a quella di Marlon Brando nelle vesti del padrino. Per Maria Falcone, sorella del giudice, si tratta di una “violazione della memoria”. Chiede pertanto ad un tribunale tedesco che venga impedito al titolare di utilizzare il nome “Falcone”. Tuttavia la sua richiesta viene respinta e il verdetto, giunto due settimane fa, è quanto di più amaro e sconfortante possa abbattersi su un familiare di vittima innocente di mafia: sono passati ormai quasi trent’anni dalla strage e la lotta alla criminalità organizzata non è un argomento di interesse pubblico tra i cittadini tedeschi: “il giudice ha operato principalmente in Italia e in Germania è noto solo a una cerchia ristretta di addetti ai lavori e non alla gente comune che frequenta la pizzeria”.
Cosa dimostra quella sentenza se non che qualsiasi lotta necessita di una memoria collettiva? Non può esserci rifiuto del male senza una narrazione della memoria, senza ricordi che si sedimentano nella coscienza di un popolo e si rigenerano continuamente trasformandosi in testimonianza, impegno, responsabilità. Indignazione. In Brasile e in Germania la cognizione del dolore, la percezione della minaccia sono quasi inesistenti. E qui?
In Emilia Romagna, terra di Resistenza, le associazioni antimafia hanno tentato di operare una saldatura, di innestare una continuità ideale tra la lotta di Liberazione e la battaglia civile contro l’occupazione dei territori da parte delle organizzazioni mafiose. L’operazione Aemilia ha rappresentato uno spartiacque tra un prima e un dopo, rendendo molto più visibile, agli occhi dell’opinione pubblica e delle classi dirigenti e produttive, la pericolosità di un nemico inarrestabile davanti al quale, per decenni, non è stata innalzata alcuna barricata. Dopo quell’inchiesta e i conseguenti processi, in pratica, non è più possibile fingere di non sapere, ritenersi immuni.
Gli sforzi compiuti per sollecitare la politica, l’imprenditoria e i media sembrano però non bastare mai. La pandemia non ha certamente contribuito a tenere alta la guardia, distogliendo l’attenzione dal tema proprio mentre le mafie sfruttano a loro vantaggio le conseguenze economiche e sociali dell’emergenza sanitaria, accaparrandosi aziende e attività commerciali in crisi. Gli anticorpi che il nostro territorio aveva sviluppato subito dopo quell’inchiesta giudiziaria non sono sufficienti o, peggio, sono già svaniti. La mafia è un virus e l’antimafia non è virale. Ma la responsabilità di questa incapacità di fare breccia nella consapevolezza popolare ricade su tante teste: su amministratori incapaci di andare oltre la retorica, consapevoli che la lotta alle mafie non abbia mai incrementato i consensi elettorali; su una propaganda politica martellante da parte delle destre che fa sì che, per i cittadini, uno spacciatore sia molto più pericoloso dell’imprenditore locale condannato per associazione mafiosa; su una società civile che ragiona e agisce per compartimenti stagni, ovvero “a ciascuno il suo” tema (quale piattaforma comune esiste tra gli attori sociali che si occupano di migranti, ambiente, diritti civili, antimafia, ecc.?); su un giornalismo placidamente selettivo riguardo alle notizie che meritano spazio e voce.
Eccetera, eccetera. Il fatto che, riguardo a questa vicenda, da Parma non sia giunta alcuna reazione istituzionale, culturale, sociale è grave, ma purtroppo non sorprende: “bella mafia”, piccola, piccolissima capitale, verrebbe da dire. Magari questa storia fosse stata davvero un pallone: sarebbe interessata a qualcuno.