Lockdown e infanzia. Cosa accade ai bambini?

Andrea Davolo*

I bambini e gli adolescenti sono completamente spariti dalle decisioni prese dal governo sulla Fase 2.  Al limite, quando se ne parla, è per interrogarsi su dove collocarli ora che i genitori saranno costretti (da Confindustria) a tornare sui luoghi di lavoro. Che è una preoccupazione sacrosanta, soprattutto se consideriamo la totale assenza di strumenti di supporto alle famiglie, che si trovano costrette a fare da sole: 15 giorni di congedo parentale al 50% e bonus baby sitter (fra l’altro erogati come alternativa che esclude l’altra) sono strumenti la cui fruibilità per la gran parte delle famiglie è già terminata da un pezzo.

Ma i bambini e gli adolescenti sono anche soggetti di diritto, portatori di esigenze di salute fisica e psicologica di cui si parla sempre poco e che, nell’emergenza sanitaria in atto, nessuno ha seriamente considerato. In questi giorni, molti mi hanno domandato quali possano essere gli effetti del lockdown sulla salute mentale dei bambini. C’è innanzitutto da considerare un fattore protettivo: i bambini hanno una capacità di adattamento più elastica, sono estremamente flessibili e quindi, in generale, rispondono meglio alle situazioni stressanti, anche quelle traumatiche, sicuramente meglio di quanto potrebbero rispondere gli adulti. Inoltre, per i nostri minorenni, che sono i veri nativi digitali, la linea di demarcazione tra mondo off-line e mondo on-line è sottile, quasi inesistente: se è vero che questo aspetto produce pericolosi fenomeni di sofferenza e addirittura psicopatologici, è vero anche che fornisce loro una capacità di gestire e vivere i rapporti on-line, quindi a distanza, di molto superiore alla nostra. Hanno, in definitiva, maggiori capacità adattative in questo scenario dove la realtà dei social sta sostituendo, in molti casi egregiamente, il reale.

Tuttavia, non possiamo approcciarci a questo tema considerando il bambino come separato dal suo contesto. Normalmente, un bambino nella sua vita quotidiana vive contesti molteplici: oltre alla famiglia, c’è la scuola, il gruppo dei pari, la squadra di calcio, l’oratorio, i nonni etc… Il restringimento degli spazi quotidiani al solo contesto familiare, specie quando diventa prolungato come quello che stiamo vivendo adesso, può presentare qualche rischio evolutivo per l’equilibrio psichico. Da operatore della Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza posso testimoniare ciò che nell’isolamento sta accadendo in famiglie già molto fragili e con minori che presentavano quadri clinici compromessi. L’esasperazione di dinamiche, di sintomi e di comportamenti patologici, molte spesso in famiglie angosciate dal futuro, è capillare. Ma alcuni effetti potremmo vederli più sul medio-lungo termine, quando l’emergenza sanitaria sarà terminata e i bambini potranno lasciar andare le difese che spontaneamente stanno utilizzando in questo periodo, manifestando i sintomi detti post-traumatici, che sono appunto “posteriori” al trauma e non coincidenti con esso.

Perché, quindi, se il minore presenta importanti capacità di risposta e di adattamento ai cambiamenti può tuttavia risentire negativamente degli effetti di un lockdown prolungato? Quando l’intera famiglia è costretta alla convivenza 24 ore su 24, 7 giorni su 7, per molte settimane, si possono sviluppare difficoltà che stressano o spaventano i bambini. Consideriamo come possono impattare alcuni fattori sulla capacità genitoriale: l’incertezza, anche economica, che molte famiglie stanno vivendo, l’angoscia per il futuro lavorativo o per le proprie condizioni di salute, la ristrettezza degli spazi abitativi in cui si è costretti a vivere (case piccole per famiglie numerose) sono solo alcuni fattori di rischio che intaccano la capacità di un genitore di funzionare da supporto per i propri figli. Infatti, per quanto i bambini possano essere più capaci di adattarsi alla situazione, rimane responsabilità di noi adulti quella di proteggere, orientare, dare un significato a quello che stiamo vivendo, per quanto eccezionale.

Faccio un esempio: se accettiamo le misure restrittive è perché in esse cogliamo una logica e ci comportiamo di conseguenza per senso di responsabilità, perché vogliamo salvaguardare la salute di tutti. Un genitore “stressato” dalla condizione generale che sta attraversando, sarà meno in grado di fornire significati accettabili dell’esperienza che stiamo vivendo ai propri figli, che non hanno né le caratteristiche psicologiche né la maturazione cerebrale per poterci arrivare da soli. Alla lunga questa incertezza genera nei bambini e negli adolescenti uno stato di stress continuo, che può essere interrotto solo da quegli stessi adulti che lo alimentano. Infine, una condizione di stress in famiglia può esitare nei conflitti fra adulti, in cui spesso i minori vengono coinvolti o triangolati, fino a sfociare in situazioni di violenza domestica. Personalmente, mi è capitato in queste settimane di intercettare due situazioni di violenza domestica, agita dal padre contro la madre, in presenza dei figli minori, in famiglie già conosciute ma dove il problema non si era mai presentato prima. La condivisione forzata degli spazi, infatti, aumenta il rischio di fenomeni di aggressività e di violenza.

Il lockdown, quindi, così come pensato nei vari decreti governativi che si sono succeduti, oltre a scaricare solo sui genitori, in condizioni spesso molto difficili, la responsabilità di essere gli unici supporti per i bambini, produce anche la situazione per cui la contrazione dei servizi, innanzitutto di quelli educativi e scolastici, rende meno possibile l’intercettazione della sofferenza. Generalmente, insegnanti, maestri ed educatori sono sentinelle importanti del disagio nei bambini e degli adolescenti. Anche laddove c’è la didattica a distanza, si tratta comunque di una modalità che rende più difficile lo svolgimento di questa funzione sentinella. Senza dimenticare che molto spesso, nelle situazioni di maggior fragilità psico-sociale, la didattica a distanza non è un’opportunità possibile: l’assenza di dispositivi informatici e wi-fi in molte famiglie ci ricorda che le differenze di classe e le maggiori fragilità psico-sociali sono esasperate in questi giorni anche dalle differenze di accesso al web. E in assenza di comunicazione via web, il mondo relazionale dei bambini si restringe ulteriormente alle sole mura domestiche.

Nelle misure predisposte dal governo Conte per affrontare l’emergenza Coronavirus, manca un piano organico che riguardi la scuola e le attività territoriali per i bambini e gli adolescenti. La scuola e le altre attività sono semplicemente chiuse e rimandate a settembre. Nessuna alternativa, al momento, è stata pensata e progettata per i bambini e le famiglie. La ministra per la famiglia, la renziana Elena Bonetti, subito dopo la conferenza stampa di Conte sull’avvio della fase 2, non ha espresso alcun tipo di preoccupazione per le condizioni dei bambini e delle loro famiglie. Ha piuttosto ritenuto che dalla posizione del suo ministero fosse più coerente e decisivo farsi portavoce delle lamentele e delle pressioni della Cei sul ripristino delle funzioni religiose.

Un “piano per l’infanzia e l’adolescenza” è uno degli elementi decisivi che risulta totalmente assente nell’attuale emergenza e questa mancanza getta le basi per un modello di welfare che sostanzialmente “privatizza” e fa ricadere l’accudimento, l’educazione e la cura dei figli totalmente sul nucleo familiare. La mobilitazione e le competenze degli operatori dell’infanzia e dell’adolescenza devono immediatamente mettere al centro questi temi ed elaborare soluzioni alternative all’immobilismo e al disinteresse mostrato a riguardo dal governo Conte, la cui fase 2 si è ridotta unicamente a recepire le pressioni alla riapertura delle aziende portate da Confindustria. Un piano che, nel rispetto delle necessarie misure di distanziamento e di utilizzo dei Dpi, dovrà prevedere finanziamenti adeguati per strutture e personale, e le cui articolazioni progettuali a livello territoriale dovranno essere gestite e controllate da comitati composti da pediatri, operatori sociali, educativi, sanitari. 

Il problema è innanzitutto politico e riguarda la gestione politica dell’emergenza. Sul piano politico deve quindi trovare una soluzione, per evitare di doverci poi trovare a psicologizzare, o peggio psichiatrizzare, e di conseguenza patologizzare gli effetti delle politiche del Governo sui nostri bambini.

 

(*Dirigente psicologo presso Ausl di Parma)