Non può esistere pratica ecologica nel capitalismo

da Fridays for Future Parma

Un momento della manifestazione per il Terzo Sciopero Globale a Parma, organizzato da Fridays For Future (27/09/2019)

Fridays for Future è un movimento internazionale nato dalla grande ondata verde del 2018-2019. Le prime azioni di Greta Thunberg hanno trovato terreno fertile in più generazioni coscienti di essere in una fase determinante per il proprio presente e per il proprio futuro. Quest’onda, però, non si è esaurita in un marasma mediatico: si è piuttosto organizzata in centinaia di assemblee locali in tutto il mondo (un centinaio solo in Italia). Queste hanno rapidamente raccolto le lotte ambientali locali, nazionali, internazionali e si sono collegate sinergicamente ad altre lotte nella sfera della riproduzione, come quella femminista, e nella sfera della produzione, come quelle sul lavoro.

È stata evidente la radicalizzazione delle parole delle migliaia di militanti, spesso alla loro prima esperienza collettiva, i quali sono passati dalla richiesta alla rivendicazione, da cambiamenti superficiali dell’attuale sistema economico a una visione radicale relativa al sistema capitalista. La coscienza che non può esistere pratica ecologica nel capitalismo, e che anche se fosse, non sarebbe un’economia desiderabile, è arrivata rapidamente.

La nascita di spazi di formazione continui, rafforzati dalle lotte, ha dato spinta per immaginare un mondo diverso in un periodo in cui, da anni, in molti avevano perso la facoltà di immaginare. Il sistema capitalistico, infatti, si è posto come soluzione naturale ai problemi creati dalle sue stesse logiche, ma negli ultimi 20 anni si è dimostrata impotente la formula del “Green Capitalism”.

Se la grande forza del capitalismo è sempre stata rappresentata dalla creazione di “nature” a buon mercato, attraverso la deleteria integrazione di lavoro umano e cambiamento ambientale, indissolubilmente concatenate alla spasmodica ricerca di capitale e dominio territoriale, il XXI secolo pare rappresentare un punto di non ritorno, ossia la fine della natura a buon mercato in cibo, energia, materie prime e lavoro, che costituiscono un tutt’uno.

L’attuale crisi evidenzierebbe l’assenza di nuove frontiere capaci di abbattere i costi di approvvigionamento di natura, soprattutto a causa del cambiamento climatico, che contribuisce a far aumentare i prezzi e a ridurre la disponibilità degli elementi necessari alla riproduzione di questo tipo di regime ecologico – tant’è che si ipotizza che quella del clima possa essere l’ultima di una lunga storia di crisi affrontate dal capitale.

Oggi il capitalismo si trova dunque davanti a un paradosso, poiché non solo le opportunità per abbassare i prezzi sono ai minimi storici, ma anche la massa di capitale in cerca di nuove fonti di investimento redditizio è più grande che mai. E per spiegare la natura di tale crisi si possono adottare due distinte prospettive analitiche: quella antropogenica e quella capitalogenica.

La prima, predominante, fa riferimento alla dinamica che, guardando alle crescenti concentrazioni di gas a effetto serra, riconosce alle attività dell’umanità tutta la responsabilità dei cambiamenti climatici – di qui il cosiddetto “Antropocene”.

La seconda, invece, pur ammettendo l’importanza del tema geofisico dei gas serra, aggiunge a tale interpretazione la dimensione geo-storica, che spiega come i cambiamenti climatici e la crescente riduzione della biodiversità siano tutti fenomeni collegati a relazioni di potere che si riflettono sulle mutazioni del clima – di qui il cosiddetto “Capitalocene”. Esso non solo produce cambiamenti geofisici esponenziali, ma contribuisce a sua volta a farne ricadere gli ingenti costi sulle donne, sui popoli indigeni, sui lavoratori e sulla natura in quanto risultato di un sistema di accumulazione.

Uno dei casi più emblematici e recenti che hanno evidenziato lo stretto legame tra la devastazione della natura, il capitalismo e l’oppressione delle classi più deboli è sicuramente quella degli incendi nella foresta amazzonica, il famoso “polmone verde” della Terra, dilagati quest’estate in sud America per dare spazio ad allevamenti intensivi che comportano conseguenze devastanti non solo per il territorio, ma anche per gli indigeni abitanti del luogo.