di Sofia Bacchini
– Padre, sei stanco? / È sudore che vedo nei tuoi occhi? / – Figlio mio, sono stanco. Mi porti? / Come tu mi portavi porterò questa nostalgia / al mio inizio e al suo / percorrerò questa via / fino alla mia fine e fino alla sua. (Mahmud Darwish)
Settantuno anni fa, il 15 maggio 1948, un popolo dalle origini mitiche proclamava la nascita del proprio stato, su una terra che – dicevano – apparteneva loro migliaia di anni prima. Contemporaneamente, un altro popolo, che da sempre abitava su quella stessa terra, cominciò a chiamare quel giorno al-nakba, la catastrofe. Ogni giorno in Palestina si lotta non solo materialmente, contro l’occupazione israeliana in tutte le sue forme, ma anche per tentare di tenere viva una memoria, la storia di un passato – e di un presente – che viene costantemente violato, negato, dimenticato. Per questo motivo in Palestina le ricorrenze sono importanti: sono rituali collettivi che permettono ad un popolo di sentirsi tale anche quando tutto il resto viene a mancare, e permettono di trasmettere quella storia che non si dovrebbe dimenticare mai.
Il 30 marzo è una data importante per i palestinesi: è la “Giornata della Terra”, che ricorda la sanguinosa fine (6 morti e centinaia di feriti) di uno sciopero generale indetto nel 1976 contro il piano israeliano di esproprio di terre palestinesi in Galilea per modificarne la demografia a maggioranza ebraica.
Tra il 30 marzo e il 15 maggio, nella Striscia di Gaza – trasformata da Israele de facto nella più grande prigione a cielo aperto del mondo per due milioni di persone – si compie la Marcia del Ritorno per non dimenticare il diritto dei 5,34 milioni di profughi palestinesi nel mondo a far ritorno alle proprie case, dalle quali furono espulsi nel 1948 per far spazio ad un altro popolo e ad un altro stato. La Marcia, come tutte le altre ricorrenze palestinesi – ad esempio le manifestazioni del venerdì in Cisgiordania – non è soltanto un rituale commemorativo, diventa soprattutto uno strumento politico per denunciare e combattere contro le disumane condizioni di vita a cui l’occupazione israeliana li sottopone, e Gaza rappresenta probabilmente la situazione più tragica.
Il 30 marzo dell’anno scorso migliaia di persone hanno preso parte alla Marcia ed alle manifestazioni lungo le linee di demarcazione tra Gaza e Israele per chiedere la fine del blocco israeliano, dell’occupazione e dei massacri, e per ribadire il diritto dei palestinesi a far ritorno alle loro terre d’origine. Il 14 maggio, alla vigilia della nakba, gli Stati Uniti hanno inaugurato la nuova sede della propria ambasciata in Israele, spostandola da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendo implicitamente quest’ultima come “capitale spirituale” del popolo ebraico. Ancora una volta abbiamo assistito ad un tentativo di negazione e riscrittura della storia, privando i palestinesi – e il mondo islamico in generale – della loro città più importante, e legittimando la continua espansione che da sempre Israele porta avanti anche nella Cisgiordania amministrata dall’Autorità Nazionale Palestinese.
Nell’arco di 11 mesi, durante le manifestazioni sono stati uccisi circa 250 palestinesi, di cui 45 bambini e bambine, mentre 2500 sono state le persone ferite.
Nel maggio 2018 il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite ha approvato la risoluzione per l’invio di alcuni investigatori internazionali nella striscia di Gaza proposta dal Pakistan a nome dell’Organizzazione per la cooperazione islamica «per indagare su tutte le presunte violazioni e gli abusi nel contesto delle aggressioni militari contro le proteste civili su larga scala iniziate il 30 marzo 2018».
Pochi giorni fa, il 28 febbraio scorso, la Commissione d’inchiesta indipendente delle Nazioni unite presieduta da Santiago Canton ha stabilito che Israele ha «violato la legge internazionale sui diritti umani e del diritto umanitario», e che «alcune di queste violazioni potrebbero costituire crimini di guerra o crimini contro l’umanità». Israele ha immediatamente rigettato il lavoro della Commissione, sostenendo attraverso le parole del Ministro degli Esteri Yisrael Katz che «l’intero scopo del rapporto è quello di demonizzare l’unica democrazia in Medio Oriente e di compromettere il diritto di Israele di difendersi da un’organizzazione terroristica omicida», intendendo Hamas e i suoi “aquiloni del terrore” e accusando il partito di non aver salvaguardato la popolazione civile.
Purtroppo non si può stabilire se ci saranno delle reali conseguenze nei confronti di Israele dopo queste accuse poiché, da quel fatidico 15 maggio 1948, il diritto internazionale non si è mai potuto realmente esercitare verso «l’unica democrazia in Medio Oriente», grazie in particolare ad alcuni amici sinceri, Stati Uniti in primis.
Nel dicembre 1948 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha votato a favore della Risoluzione 194, che stabiliva che «i rifugiati che desiderano tornare alle loro case e vivere in pace con i loro vicini dovrebbero essere autorizzati a fare così alla prima data praticabile». Settantuno anni dopo, quei rifugiati ancora non hanno che una chiave che arrugginisce sul muro in attesa di poter aprire una porta che quasi sicuramente non esiste più. E nonostante settantuno anni di occupazione della terra, delle persone e della memoria, lottano ancora, avvolti da un silenzio mortale.