di Francesco Antuofermo
Qualche giorno fa, un certo Pierangelo Albini è stato ricevuto con tutti gli onori in Commissione Lavoro del Senato della Repubblica nel corso dell’audizione sul cosiddetto “Decretone”, il pacchetto di provvedimenti dove è stato inserito il reddito di cittadinanza. Le sue intenzioni erano quelle di lanciare un accorato appello ai parlamentari per sensibilizzarli contro l’approvazione del decreto, perché a suo dire questa elemosina, anziché incrementare l’occupazione scoraggerebbe ancora di più i giovani a cercare lavoro. Pierangelo Albini è poco conosciuto dagli operai, ma è una persona che conta. È direttore dell’Area Lavoro e Welfare di Confindustria, un ruolo che di fatto lo rende il portavoce ufficiale delle imprese. È lui che dà voce agli umori degli industriali aderenti alla Confederazione. Le sue parole pronunciate nel corso dell’audizione al Senato, sono una perla indicativa del livello raggiunto dallo sfruttamento in fabbrica favorita dalla politica accomodante del sindacato e meritano di essere riportate per intero. «Il reddito di cittadinanza rischia di avere un effetto scoraggiamento sulla ricerca del lavoro da parte dei disoccupati anche alla luce del livello troppo elevato del beneficio economico, fino a 780 euro al mese per un single, considerando che lo stipendio mediano dei giovani under 30 si attesta a 830 netti al mese».
A dar man forte al signor Albini ci ha pensato Giorgio Merletti di Rete Imprese Italia, di Confartigianato. Anche questo nome è sconosciuto a gran parte degli operai, ma fa parte anche lui della schiera dei portavoce del Capitale. Merletti ha espresso il proprio pensiero in forma più edulcorata di Albini e dalle sue parole, come in un gioco di prestigio, quello che doveva essere nelle intenzioni un sostegno per i poveri si è magicamente trasformato in un obbligo al lavoro: «La chiave di volta deve essere la trasformazione del reddito di cittadinanza nel lavoro di cittadinanza, rafforzando il meccanismo delle condizioni per ottenere il reddito di cittadinanza (leggasi: creare maggiori ostacoli ai meccanismi che regolano l’accesso al sussidio) e garantire efficaci controlli per evitare abusi nella fruizione del beneficio».
Il sig. Albini e il sig. Merletti possono essere capiti. Fanno gli interessi dei loro padroni. Lo sappiamo bene: non si sputa nel piatto in cui si mangia. Sono sul libro paga degli industriali e quindi nella foga di affossare il provvedimento non si accorgono che mettono in evidenza il livello salariale da fame che viene elargito oggi agli operai più giovani. Se ne ricava quindi che in Italia un giovane sotto i 30 anni di età percepisce mediamente una busta paga di 830 euro al mese. Una miseria. Una condanna alla rinuncia perpetua dell’enorme ricchezza che ogni giorno si produce e che spesso rimane invenduta perché in eccesso. 830 euro al mese, sono appena 50 euro in più rispetto al reddito di cittadinanza promesso dal governo Conte e sono per di più una media: in realtà al sud si percepisce ancora meno.
Ma se la premiata ditta Albini & Merletti si giustifica con la sua collocazione sociale, desta sicuramente scalpore il fatto che contro questo provvedimento, massacrato nella quantità e nella possibilità di concessione per via dei meccanismi di inciampo che ne disincentivano le richieste (si parla addirittura di galera per chi cerca di fare il furbo), si sono schierati anche personaggi di indubbia fede sindacale con le stesse motivazioni della Confindustria. È il caso ad esempio di un certo Marco Bentivogli. Secondo lui, è meglio lasciare stare il reddito di cittadinanza. Lo chiede per favore. È meglio investire direttamente «sulla concretezza della quarta rivoluzione industriale. Solo così verrà creato vero lavoro e si combatterà la disoccupazione. La digitalizzazione, e quindi l’Industria 4.0, è l’unica chiave che può aiutare la gran parte del tessuto produttivo ad agganciare il motore di testa. Con buona pace dei luddisti del nuovo millennio, che credono che la tecnologia distrugga i posti di lavoro, mentre invece li crea».
In altre parole il sig. Bentivogli consiglia di smettere di sprecare i soldi in sussidi contro la povertà. Per lui è meglio versarli direttamente nelle casse delle imprese, loro si capaci di risolvere i problemi degli esclusi. Però Bentivogli è un affermato sindacalista. È il segretario dei metalmeccanici della Cisl, non un rappresentante qualsiasi delle imprese. Ma leggere quello che dice non si capisce da chi prenda lo stipendio. Non vive forse dei quattrini versati mensilmente dai lavoratori sotto forma di trattenuta sindacale? Perché si permette di sputare nel piatto in cui mangia? Si deve forse pensare che oltre allo stipendio che riceve dagli operai vada a mangiare anche nella mensa del Capitale?
Ma forse il sig. Bentivogli è solo un cantante fuori dal coro. I sindacalisti non possono pensarla tutti così. Proviamo a sentire allora qualcuno che nel sindacato conta di più. Magari di colore diverso. Sentiamo cosa ne pensa una certa Susanna Camusso, lei si ben conosciuta da tutti gli operai: «Il reddito di cittadinanza? Il grande problema è la creazione del lavoro [deve essere una fissazione dei sindacalisti di professione], le politiche di sussistenza non possono che essere temporanee. Continuiamo a essere convinti che la cittadinanza è fondata sul lavoro».
I prestigiatori sono coloro che con abilità e disinvoltura riescono a trarre in inganno, dando a intendere una cosa per un’altra. Qui però non si tratta di un gioco. Che gli interlocutori si chiamino Confindustria o Sindacato, per gli operai occupati o disoccupati che siano, non cambia nulla. Il risultato è sempre lo stesso, come nel gioco delle tre carte. Secondo loro dobbiamo accontentarci di salari da fame quando siamo al lavoro e qualche elemosina se finiamo nell’inferno della disoccupazione. Ricordiamocelo: quando la piramide sarà rovesciata toccherà poi a loro subire lo stesso trattamento.