di Margherita Becchetti
Se non fosse che ormai ci stiamo drammaticamente abituando, verrebbe quasi da sorridere di fronte al tentativo caparbio delle forze di destra di continuare a manipolare goffamente la storia del confine orientale. Manipolarla non tanto per dar ragione della sofferenza che in quelle terre si consumò tra guerra e dopoguerra, quanto per interessi esclusivamente propagandistici ed elettorali.
Allora, forse, dovremmo ormai urlarlo a gran voce che siamo stanchi di politici che bistrattano la storia come se fosse una semplice opinione, che usano politicamente il passato per riscaldare l’opinione pubblica e mal orientarla, confidando sull’ignoranza generale. Sono 15 anni che gli eredi dei fascisti al governo si sono inventati un secondo ambiguo giorno della memoria, e sono 15 anni che, ogni anno, intorno al 10 febbraio ci sorbiamo le loro dichiarazioni strampalate, che non tengono conto della differenza tra storia e memoria, che si nutrono di preconcetti e di falsificazioni, che rinunciano ad ogni tentativo di contestualizzazione: operazione essenziale quando si vuol tentare di comprendere ‒ e non solo giudicare ‒ il passato.
E invece, per i nostri politici appassionati di spot story, la tragedia del confine orientale inizia nel 1945. Mentre è evidente che il 1945 non fu che un epilogo o, quanto meno, un momento di passaggio di qualcosa che ha avuto un prologo molto più lontano. I morti nelle foibe o le sofferenze di coloro che condivisero l’esodo istriano non sono scaturiti dal nulla e anche un ragazzino di terza media sa che nella storia nulla accade senza causa. Ma la politica di bassa lega che ne vuole monumentalizzare il ricordo sembra voler piuttosto riabilitare certe vetuste categorie antropologiche, e convincerci tutti che, a scontrarsi in quel periodo, non siano stati altro che la luminosa civiltà italica e la sanguinaria barbarie slava.
Un’opinione ridicola, quasi grottesca che, tuttavia, visto il credito che riscuote sui social ‒ il palcoscenico degli imbecilli, per dirla all’Umberto Eco – sembra ancora attecchire sul senso di atemporalità che annebbia questo presente inquieto. E se una simile cattiva propaganda non è più solo retaggio di un lontano passato, allora occorre tornare alle origini dei fatti, alle loro dimensioni, occorre riprendere in mano libri e studi che ci aiutino non solo a capire ma anche a maturare conoscenze e argomentazioni per difenderci, colpo su colpo, da chi manipola la storia per ottenerne veleno sociale.
Che piaccia o no, non si possono comprendere foibe ed esodo dall’Istria estrapolandoli dal contesto nel quale presero corpo, che altro non fu che quello della dissoluzione dello stato italiano nel settembre del 1943. Uno stato che, anche prima dell’aggressione alla Jugoslavia del 1941, condusse una politica di ostinata avversione nei confronti del nascente stato dei serbi-croati e sloveni fin dal termine della prima guerra mondiale, considerando la vicina Jugoslavia una possibile area da sottomettere alla propria influenza e al limite da disgregare a proprio tornaconto.
Una politica che ebbe il suo prolungamento ed il suo culmine nella snazionalizzazione violenta delle comunità slave operata dal successivo regime fascista, che accordò mano libera al nazionalismo estremo del cosiddetto «fascismo di frontiera». «L’equiparazione italiani uguali fascisti ‒ ha scritto Enzo Collotti, uno dei maggiori storici italiani ‒ non è stata una invenzione degli slavi ma un’equazione inventata dal fascismo all’atto di operare una vera e propria “pulizia etnica” nella Venezia Giulia, rendendo la vita impossibile alle popolazioni locali, impedendo l’uso della lingua, sciogliendone le amministrazioni, chiudendone le scuole, perseguitandone il clero e le manifestazioni associative, boicottandone lo sviluppo economico, costringendole all’emigrazione» (Nelle foibe la falsa innocenza della patria, “il manifesto”, 14 febbraio 2004).
È noto a molti, poi, che con l’aggressione alla Jugoslavia dell’aprile 1941 e l’annessione della Slovenia al regno d’Italia, questo «genocidio culturale» lasciò il posto ad un’ulteriore escalation di violenza e sopraffazioni nei confronti della popolazione slava. La repressione italiana ebbe poco da invidiare alle rappresaglie tedesche in altre parti della Jugoslavia: incendi di paesi e villaggi, esecuzioni di massa, deportazioni in campi di concentramento come Gonars o Renicci. È meno noto, invece, che nessuno dei responsabili dei crimini commessi in Jugoslavia è mai stato chiamato a rispondere delle sue azioni.
E allora, in questa ennesima polemica del giorno del ricordo, nauseati dal conto delle cifre gonfiate a dismisura per fare colpo sull’opinione pubblica e per ragioni che nulla hanno a che vedere con la comprensione del passato, non possiamo che ribadire una necessità: quella di considerare il problema delle foibe nel quadro della risposta ai crimini del fascismo prima o dopo il 1941. Un’altra scomoda eredità che il regime ci ha lasciato, un altro danno morale di cui chiedere conto a chi, di quel regime, si sente erede o sente nostalgia.