di Marco Severo
Quello che segue è un breve elenco, nonché un doveroso elogio, dei migliori insegnanti incontrati in vita sua da un quarantenne tipo di oggi. Si dà il caso infatti che già ai tempi della scuola il quarantenne tipo di oggi ebbe modo di intuire quale fecondo futuro lo attendesse sul fronte sociale e culturale. I suoi insegnanti ne erano una prefigurazione. Di tanto in tanto, dopotutto, è cosa onesta discorrere di cose belle. Invece che piagnucolare sul precariato, o dolersi del declino delle grandi ideologie novecentesche, oppure inorridire per il rimbambimento collettivo da social network, va dato merito al merito parlando appunto del grande patrimonio morale – se non materiale, d’accordo – che la famosa «generazione precedente» ha lasciato in eredità agli attuali trena-quarantenni. In particolare, è giusto farlo parlando di una figura tanto importante quale quella del mentore; dell’insegnante; del portatore di sapienza e competenza; in altre parole, del maestro.
Primo fra tutti, in tal senso, venne il tizio che suonava il flauto. Insegnava Italiano Storia e Geografia ma gli interessava di più il flauto. Entrava in aula dopo l’ora di Musica, ghermiva il primo flauto a portata di mano e prendeva a suonarlo con autentico trasporto. Si avvitava e si contorceva con repentini scarti d’anca o flessioni di ginocchia. La classe s’era fatta edotta e ogni volta schierava sui banchi tutti i flauti disponibili: flauti di plastica bianchi, blu, rossi, beige. Faceva un po’ schifo che quello ci mettesse la bocca sopra, ma ne valeva la pena. Se il trucchetto funzionava, il gioco era fatto e la lezione era bella che saltata. Perché il prof – all’occorrenza incentivato da applausi e richieste del «pezzo dell’altra volta, professo’» – era capace di intrattenere la classe con esibizioni lunghe tutta un’ora. Talvolta portava da casa il flauto suo personale, di legno. E guai se la classe si distraeva durante le esibizioni. Egli era infatti un tipo fumantino e mutevole d’umore. Certe volte si divertiva con cose minime, come quando faceva esplodere le confezioni del Buondì. Altre volte viceversa faceva il numero del calcio volante: nel corso di certe sue sfuriate afferrava il libro del primo malcapitato, lo scaraventava in aria e durante la discesa lo centrava con il piede. Ad un certo punto, in terza media, prese inoltre la fissa del radioamatore. Al posto del flauto adesso veniva in aula con una ricetrasmittente semiprofessionale con la quale parlava ai camionisti di Busto Arsizio o di Battipaglia. Faceva provare anche gli alunni: «Break al canale, mi copiate?». La classe imparò così che a scuola, in effetti, si poteva anche “copiare”.
Poi venne quello che chiedeva il permesso prima di mettere il voto. Prof di Filosofia al liceo. Sbatteva velocemente le palpebre, apriva e chiudeva le gambe nervosamente come chi debba fare pipì. Ridacchiava con la testa incassata nelle spalle. Raccontava di continuo un episodio che doveva essere stato per lui decisivo. C’entravano il ’68 e un tale «Congo Belga», un capo del movimento che all’epoca pare picchiasse duro e dal cui ricordo egli continuava ad essere atterrito. Di fatto ora, al termine d’ogni interrogazione, il prof contrattava il voto con la classe. Di fronte a democratiche rimostranze concedeva rialzi generosi. Anzi, rilanciava egli stesso la quotazione: «Facciamo 7? Oppure 8? 8 e mezzo va bene?». Se è poco dimmelo, esortava. Naturalmente la classe imparò facilmente la democrazia, e anche la democrazia diretta.
Al prof iper-democratico si aggiunse presto una collega di Lettere. E questa aveva problemi seri. Lo comprese subito la classe, che volendole evitare inutili sofferenze saltò i preamboli. In aula comparvero così gli alcolici, le carte da poker, le fionde e gli alunni di altre classi infiltrati tra i banchi, per vedere se quella se ne accorgeva. Un giorno la donna ebbe l’ardire di sequestrare una bottiglia di Fontanafredda comperata al discount, solo che il tappo a quel punto stava per saltare. Così quella riuscì nell’impresa di parlare per un’ora di Verga e del Verismo con il pollice premuto sul sughero. La classe alternò ovazioni a cori di giubilo, non si sa se per Verga o se per il sughero.
Infine venne il tempo della scuola di giornalismo. A tal riguardo, in verità, non vi sarebbe nulla da segnalare. Anzi. Il direttore della scuola era solito indossare una bella giacca di lino e scarpe con i lacci sciolti. Possedeva la necessaria aura bohémien, aveva fatto l’inviato in posti pericolosi. Inoltre istruiva gli alunni con dedizione e non lesinava briciole di saggezza.
Solo che poi si andò tutti in stage, sicché la normalità venne subito ripristinata. Il quarantenne tipo di oggi – all’epoca trentenne ignaro del quarantenne che era in lui – venne mandato in stage presso un importante giornale, dove in quel tempo esercitava tutto il suo charme un pezzo grosso della redazione, a cui tutti i sottoposti riservavano grandi riverenze. Le parole e le minime esternazioni del pezzo grosso producevano, invariabilmente, molti ossequi da parte degli astanti. Allo stagista, ovviamente, il pezzo grosso non concesse che un’occhiata. Ma una sera, ore 22 circa, alla chiusura del giornale, inaspettatamente egli elargì anche a lui un po’ della sua scienza. Aveva appena terminato di leggere un articolo del giovane quando gli si fece dinnanzi. Con le mani in tasca lo guardò, arricciò un sorriso, quindi abbracciando con gli occhi suoi intelligentissimi l’intera redazione disse: «Stagista…». Silenzio di tutti. «Stagista, ma tu…». Altra sapiente pausa. «Ma tu hai mai letto qualcosa oltre a Pinocchio?».
È dunque evidente, per concludere, quale alto grado di passione, professionalità e transfert emotivo sia ravvisabile in simili campioni dell’insegnamento. Innegabilmente, sono maestri come loro che riscattano la reputazione degli attuali sessanta-settantenni, ai quali tanto inopportunamente si addebita gran parte della crisi culturale e politica dell’Italia di oggi. Costoro, al contrario, furono chiaramente all’altezza del ruolo, non sfigurando certo di fronte ai grandi paradigmi della professione che – curiosamente – anche il cinema andava celebrando proprio in quegli anni Ottanta e Novanta nei quali si compì l’apprendistato degli attuali quarantenni.
Forse che il prof del flauto o la prof della bottiglia ebbero qualcosa da invidiare a personaggi come il professor Keating de “L’attimo fuggente”, il celebre “capitano mio capitano”, oppure a Mickey il vecchio allenatore di Rocky, ad Obi-Wan Kenobi, a Guglielmo da Baskerville de “Il nome della rosa”, o ancora a quello di «dai la cera-togli la cera»?
Certo è vero, il loro lavoro non deve aver fruttato più di tanto, né i risultati sono stati duraturi se oggi, nel volger di pochi anni, il massimo del modello offerto ai giovanissimi – anche da parte dei trenta e quarantenni appunto – rischia di essere quello dei video-tutorial, i filmati degli youtuber e i blog tematici alla Salvatore Aranzulla (nella migliore ipotesi). Gli oggetti del sapere tendono a diventare pillole liofilizzate, talvolta indorate da jingle di sottofondo, effetti di montaggio, battute di spirito e in generale caratterizzate da una «evaporazione» della materia della conoscenza, come sostiene Massimo Recalcati, cioè una scomparsa della corporeità e persino della sensualità dell’atto dell’insegnare.
Ma niente paura, infine. Il quarantenne tipo di oggi sa come cavarsela. Ha avuto maestri di razza, lui. Gente memorabile. Però questo, magari, non ditelo ai suoi alunni. Adesso che, insegnante, lo è diventato anche lui.