di Francesco Antuofermo
Sembra ormai definito che dal 1° marzo entrerà in funzione il ‘reddito di cittadinanza’. Chi vuole richiederlo deve presentare la domanda a Poste Italiane usando il modello telematico. Poste italiane trasmetterà poi il modello all’Istituto nazionale di previdenza sociale) che ne verificherà il possesso dei requisiti. Dopo tutti i controlli l’interessato riceverà a casa una lettera dell’Inps con la risposta affermativa o negativa. Se la risposta è positiva si potrà andare a ritirare direttamente all’ufficio postale la card caricata della somma spettante. Tutto questo sarà effettuato entro il 30 aprile secondo il cronoprogramma previsto del governo.
Il reddito di cittadinanza sembrava dovesse costare nel periodo elettorale oltre 15 miliardi di euro. Una cifra enorme che ha suscitato le proteste risentite della parte nobile della società: imprenditori e classi più ricche hanno utilizzato tutte le armi a disposizione per affossare la misura. Hanno cominciato a bollarla come reddito gratis per i furbi che lavorano in nero, o come una misura che avrebbe favorito gli habitué del divano che passano la loro giornata a farsi imbonire dalla pletora di cuochi televisivi che imperversano sui teleschermi. Sulla spinta di queste proteste e della ghigliottina europea, la spesa è stata via via ridotta prima a 10, e ora a circa 6 miliardi.
Riducendo l’importo si è ristretta anche la base dei poveri che ne avranno diritto ma le lamentele non sono comunque cessate, soprattutto da parte degli imprenditori. Il motivo è semplice. La misura crea una sorta di concorrenza gratuita allo sfruttamento salariato in fabbrica. Rappresenta un’alterazione delle leggi del capitale che prevedono un mercato del lavoro con una larga disponibilità di braccia che non abbiano altra alternativa che vendersi per un salario. È in questo senso che si devono leggere tutti i vincoli imposti dal governo per usufruire del sussidio: il nucleo familiare deve possedere un Isee inferiore a 9.360 euro, un patrimonio immobiliare non superiore a 30 mila euro, beni mobili con valore massimo di 6 mila euro, una soglia sempre di 6 mila euro moltiplicata per un parametro misterioso legato alla consistenza del nucleo familiare, e altri fattori scoraggianti, compresa la minaccia della galera per chi omette o tenta di “fare il furbo”. Il fortunato che avrà superato tutti i controlli dovrà poi, entro maggio, stipulare presso un centro per l’impiego o un’agenzia privata, un patto di lavoro dove si impegnerà a cercare attivamente un impiego. Ma non basta: dovrà anche formalizzare un accordo con il proprio Comune di residenza per lo svolgimento di servizi di pubblica utilità.
Una volta inseriti questi dissuasori, le proteste industriali si sono dissolte, svanite come nebbia al sole. Anche perché il governo è riuscito, con una giravolta da saltimbanco, ad inserire le imprese all’interno della fascia di poveri che godranno del sussidio. Una grande idea scaturita dalle menti sopraffine del Ministero che hanno fatto di tutto per non escluderle. Ma cosa c’entra il sussidio contro la povertà con le imprese? Il piano del governo prevede che quelle che desiderano approfittare della benevolenza del reddito di cittadinanza devono comunicare le loro disponibilità di posti di lavoro, ai centri per l’impiego e alle agenzie per il lavoro. Se poi decidono di assumere un avente diritto al bonus potranno esse stesse accedere al beneficio del reddito di cittadinanza senza sottostare, loro sì, a vincoli di reddito o di Isee. Si metteranno cioè proprio sullo stesso piano di un qualsiasi indigente accaparrandosi uno sgravio contributivo da 5 a 18 mensilità senza rischiare la galera, neppure se dopo qualche mese decidono di lasciare a casa il malcapitato!
Proprio l’equivalente di quanto avrebbe dovuto percepire il disoccupato fortunato che una volta assunto perderà il diritto al sussidio. Il reddito di cittadinanza, infatti, è previsto solo per una durata massima di 18 mesi, ma per mantenere il diritto al suo godimento non si potranno rifiutare più di tre offerte di impiego, pena la perdita dal sussidio. Prima offerta entro 100 km; seconda offerta entro 250 km; terza offerta: tutto il territorio nazionale. Se abito a Bari dovrò accettare un impiego disponibile a Torino, mentre se abito a Milano va bene anche Palermo. Se il disoccupato rifiuta la trasferta finisce il sussidio.
Lenin definiva l’occupazione coloniale italiana della Libia col termine di imperialismo straccione. In questo modo voleva evidenziare lo scarso livello di sviluppo industriale che l’Italia dell’epoca aveva raggiunto che non ha comunque impedito alla borghesia italiana di andare a fare disastri in Africa. Qui invece ci troviamo di fronte al capitalismo straccione. La logica vorrebbe che in un’ottica di buonismo e di beneficenza anche le imprese debbano collaborare a ridurre la povertà attraverso un piano straordinario di assunzioni, senza per questo pretendere sussidi o elemosine. E invece? Eccole lì col cappello in mano e le pezze al culo. Non sono bastati tutti gli sgravi e gli incentivi per le industrie 2, 3, 4 e infinito punto zero. Non bastano i regali elargiti alle imprese a man bassa da tutti i governi precedenti. No. Occorreva inserirsi anche nei fondi destinati al piano della lotta alla povertà, alla beneficenza. Arraffare nella mensa dei poveri, togliendogli il cibo direttamente dal piatto. Che vergogna per i nostri capitalisti. Pecunia non olet si suol dire, indicando che i quattrini fanno sempre gola indipendentemente dalla fogna in cui sono prodotti. Ma qui in Italia ormai il pudore ha passato ogni limite. Forse è meglio che gli operai si preparino a creare delle casse di mutuo soccorso per aiutare direttamente la forza lavoro disoccupata. Dai padroni e dai loro lacché non possiamo aspettarci nulla.