di Francesco Antuofermo
«In una nazione libera in cui non siano consentiti gli schiavi, la ricchezza più sicura consiste in una massa di poveri laboriosi. Prescindendo dal fatto che essi sono la fonte d’offerta mai esaurita per la flotta e per l’esercito, senza di essi non vi sarebbe godimento, e il prodotto di nessun paese sarebbe valorizzabile. Per rendere felice la società (composta naturalmente di coloro che non lavorano NdA) e per render il popolo contento anche in condizioni povere, è necessario che la grande maggioranza rimanga sia ignorante che povera. Le cognizioni aumentano e moltiplicano i nostri desideri, e quanto meno un uomo desidera, tanto più facilmente i suoi bisogni potranno essere soddisfatti».
(Bernard de Mandeville, 1670–1733, medico e filosofo olandese, ma soprattutto ricco).
Dopo 15 anni di nomadismo precario tra gli istituti tecnici commerciali, quest’anno mi sono visto assegnare un incarico presso un istituto professionale. Il primo approccio è stato traumatico. Insegno in sei classi prime, con trenta anime ciascuna che hanno dai 13 ai 15 anni. Ogni classe ha in media 4/5 alunni Dsa, ossia ragazzi con disturbi specifici di apprendimento. In due prime a questi ragazzi si aggiungono due disabili che usufruiscono di insegnanti di sostegno. In tutte le aule ci sono non meno di cinque allievi ripetenti, con alle spalle un anno di tentativi di adattamento alle regole scolastiche: il loro curriculum è ricco di rapporti disciplinari e sospensioni. Per lo più arrivano bocciati da altre scuole, o cacciati durante il primo trimestre di ogni anno, in primis dagli istituti tecnici che setacciano gli allievi scremando i più deboli e/o i più turbolenti per indirizzarli verso il nostro istituto. La presenza di alunni stranieri è massiccia e tra questi tanti non conoscono una parola di italiano e devono così frequentare corsi specifici. Nel frattempo ti guardano spaesati interrogandosi sull’utilità di essere arrivati in questo paese di matti.
Il sistema scolastico italiano prevede un ciclo di studi uguale per tutti fino alla terza media. Poi si cambia. La scuola secondaria superiore è strutturata su tre livelli: liceo, istituti tecnici e istituti professionali. La scelta a quale istituto iscrivere il proprio figlio dipende da tanti fattori: andamento scolastico generale nella scuola di primo grado, pagella finale della terza media, situazione sociale della famiglia. In genere però la selezione può essere ricondotta alla classe sociale di appartenenza: la maggior parte degli studenti degli istituti professionali viene da famiglie a reddito basso, come operai, impiegati di ultimo livello, disoccupati. Le classi intermedie tendono ad iscrivere i propri figli agli istituti tecnici, i più ricchi mandano i propri rampolli al liceo. La gran massa degli alunni stranieri approda negli istituti professionali e così pure i ragazzi con disturbi specifici di apprendimento. Poche sono le presenze di queste figure nei licei, tanto è vero che lo scorso anno un noto liceo romano poteva vantare la purezza dell’istituto nella sua presentazione, individuata proprio dall’assenza di alunni disabili e stranieri!
La suddivisione quindi più che per merito o per poca voglia di studiare, riflette la stratificazione economica della nostra società. L’investimento delle nostre istituzioni si adegua così alle necessità del mondo produttivo che, oltre alle eccellenze dei licei, necessita di manovalanza poco istruita e soprattutto a basso costo degli istituti professionali.
Dopo un mese passato a tentare di domare i miei giovani leoni, provo a discuterne con la vicepreside. Le faccio notare che classi di 30 allievi sono eccessive anche se ci troviamo in un istituto professionale. L’anno precedente nell’istituto tecnico dove insegnavo, il numero di studenti non superava le 23 unità e questo numero non poteva essere ampliato se la classe aveva ragazzi Bes, ossia allievi con bisogni educativi speciali. La risposta della dirigente è stata caustica: il provveditorato non ha concesso più di sei classi prime per via dei costi (più classi, più insegnanti, più spese). Le rispondo che così viene leso il principio fondamentale costituzionale all’istruzione, ma di fronte ho solo due occhi grandi e rassegnati. Tanto, sembrano suggerire, la maggior parte di loro andrà a ingrossare le fila della forza lavoro, dell’esercito industriale di riserva che premerà per mantenere bassi i salari e in condizione di ricatto gli occupati. In questa logica non serve adoperarsi per un’istruzione adeguata. Meglio insegnargli subito un mestiere e mandarli a lavorare presto piuttosto che farli studiare e fornirgli gli strumenti per pensare. Non va forse in questa direzione il progetto di alternanza scuola–lavoro, che prevede un assaggio di ben 400 ore di mondo aziendale per gli istituti professionali e solo 200 per i licei? Come dice Mandeville conviene lasciare povera e ignorante una buona fetta della popolazione, per la felicità delle classi più ricche che potranno così contare su una massa di diseredati laboriosi. L’istruzione moltiplica i desideri delle persone, lasciamo solo alle classi più ricche questo splendido privilegio.
Così, mentre i miei studenti sono intenti a divertirsi, a comunicare via web smanettando inebetiti sui cellulari incuranti della mia presenza, io tento di spiegare che la loro speranza di vita e il loro tasso di mortalità è direttamente proporzionale al grado di istruzione che riusciranno ad ottenere. Lo dicono le statistiche: i laureati vivono più a lungo mentre le classi più povere dedite ai lavori umili e pesanti muoiono prima senza godersi neppure qualche anno di pensione. Gli dico che loro dagli insegnanti devono pretendere l’istruzione e devono conquistarsi gli strumenti per pensare con la propria testa perché fuori dalla scuola sono pronti gli accalappiacani in attesa di materiale ignorante e con pochi desideri da soddisfare, da macinare nel tritacarne della produzione. Poi esco dalla stanza senza voce e ricomincio da capo, in un’altra classe, in un’altra ora, con il pensiero che si rifugia nelle stelle, nella curiosa speranza verso tutta questa eccellente confusione che regna sotto la loro luce.