Da migrante a ponte tra culture: l’odissea di Mursal

di Petra Colombo

Mursal Moalin Mohamed nasce nel 1990, un anno prima dell’inasprirsi della guerra civile in Somalia. Dopo 6 anni in viaggio, 7 nazioni, 13 città, centinaia di migliaia di chilometri e innumerevoli spostamenti, diventa mediatore culturale a Parma. Ma non bisogna fare l’errore di pensare che la sua sia una storia eccezionale: quando accomuna milioni di persone in tutto il mondo, lo straordinario smette di essere tale e diventa statistica. E nell’impersonalità dei numeri ci perdiamo, perdiamo il senso di quello che succede anche se queste storie attraversano le nostre città, perché ci accontentiamo di archiviarle in una categoria preconfezionata. Bene, stavolta andiamo oltre i numeri e facciamo i conti con l’essere umano: questa è la storia di Mursal Moalin. Questa è la storia di un migrante.

Ma per raccontarla bisogna tornare al 1991, quando gli scontri tra i ribelli e il regime portano il caos in Somalia. «La presenza dei “signori della guerra” – dice Moalin −, molto attivi fino al 2005, rende la situazione ingestibile, soprattutto nel Sud del paese. Nel 2005 prende il potere, portando una relativa stabilità, l’Unione delle Corti Islamiche. Ma dopo un anno, l’Etiopia entra in guerra con la Somalia, nel 2007 emerge un altro gruppo estremista islamico e il paese sprofonda nuovamente nel caos. Sono milizie armate che cercano di reclutare, anche con la forza, i giovani e giovanissimi per arruolarli nelle file dei propri combattenti. Avevo 18 anni e, nel dicembre del 2008, decido di lasciare il paese».

Come hai preso la decisione di partire?
«Ho detto no a chi cercava di reclutarmi nelle milizie estremiste. E per questo devo ringraziare mia madre. Io sono musulmano, sono credente e, come tutti i giovanissimi, alcuni discorsi “ribelli” avrebbero potuto fare presa su di me, come ho visto succedere a tanti miei amici. Ma mia madre mi ha fatto ragionare, mi ha fatto capire quanto sarebbe stato sbagliato aderire. E, ovviamente, una volta detto no, ero in pericolo e non potevo restare lì. Ho deciso con i miei genitori che dovevo scappare».

Se tu fossi rimasto cosa sarebbe potuto succedere?
«Succedeva spesso, ed è successo anche a ragazzi che conoscevo, di essere perseguitati, messi in carcere, in posti dove le milizie dicevano di “rieducare le persone”. Ovviamente c’era anche il rischio di venire uccisi. Si poteva finire male. Quindi sono partito ed ero solo, senza parenti o amici. In questi casi si conoscono le persone per strada, a volte si fa un pezzo di cammino insieme, ma non c’è mai stato qualcuno in particolare con me. Poi, quando devi attraversare i confini, che sono i momenti più pericolosi, magari trovi qualcuno che cerca di aiutarti. Alcuni sono quelli che chiamiamo “trafficanti”, ti spiegano come fare e ti fanno fare un attraversamento più sicuro in cambio di soldi».

E ti sei sentito più sicuro con loro?
«Non sei mai sicuro. È un viaggio “della speranza”, o forse “della disperazione”, e ovviamente lo fa solo chi non ha un’altra scelta. Il primo pericolo è quello di essere catturato dalle forze dell’ordine e finire in prigione, perché si è sempre senza documenti in regola. Proprio come nel mio caso: erano impossibili da ottenere in Somalia. E se vieni preso, sei rispedito indietro e devi ricominciare daccapo. Oppure devi avere molti soldi per corrompere i funzionari e pagarti la tua libertà».

Qual è stata la prima tappa?
«Il Kenya.  Lì sono rimasto due mesi. La mia idea iniziale era di fermarmi e “ricominciare” lì. Ma era difficile. C’erano dei campi di accoglienza dove ti davano da mangiare, dormire e basta, non era possibile trovare un lavoro o mettere in piedi un progetto di vita. Poi, altri ragazzi, anche loro nella mia situazione, mi hanno parlato dell’Europa. Per noi era una parola che identificava un posto in cui non solo la tua vita non era in pericolo, ma dove c’era la possibilità di condurre un’esistenza dignitosa. E la porta d’ingresso dell’Europa era l’Italia».

Qual è il percorso che porta dal Kenya a qui?
«Passare dall’Uganda, poi entrare in Sud Sudan e tentare il passaggio in Sudan. Questa frontiera ho cercato di attraversarla più volte. Il Sudan è diviso, nel Sud sono quasi tutti cristiani ed è in generale più arretrato. All’arrivo ti danno un foglio che ha validità di due mesi, una specie di visto turistico. Ma entrare in Sudan è complicato perché temono tu voglia arruolarti con le milizie nemiche. Due volte sono stato respinto, poi al terzo tentativo ce l’ho fatta, naturalmente sempre da clandestino. In Sudan, per fortuna, sono stato accolto da altri ragazzi somali. A quel punto, bisognava organizzare l’attraversamento del deserto».

Il deserto tra Sudan e Libia.
«Il deserto è un confine enorme, il punto più pericoloso del viaggio. Anche più del Mediterraneo. Il deserto è il posto dove l’incertezza è massima. Devi fidarti di un trafficante, hai bisogno del suo aiuto. Sai che sono criminali e la tua vita dipende da loro. Spesso si riesce ad attraversare, ma capita anche che alcuni prendano solo i soldi, ti carichino in macchina e poi ti abbandonino. Ti lasciano in mezzo al deserto per un tempo incalcolabile, non sai quanto dovrai aspettare, perché i trafficanti non te lo dicono. Magari vogliono aspettare di radunare più gente e fare un unico viaggio. O stanno prendendo accordi con altri trafficanti. Uno raccoglie dieci persone, un altro venti, qualcuno ha il camion. Tu non sai cosa sta succedendo. Io e quelli che erano con me siamo stati fortunati: “solo” 5 giorni in mezzo al nulla. Alcuni restano anche un mese o due mesi. Senza potersi muovere, perché… dove vai?».

E dopo quei cinque giorni di attesa in mezzo al deserto?
«È arrivato un camion, di quelli per le merci, ma usato per le persone. Hanno caricato moltissima gente: ragazzi come me, donne, bambini, anziani, oltre a uomini adulti. C’erano persone sia dentro che sul tetto del rimorchio. Ed è iniziata la traversata. Terribile. Due camion con 233 persone a bordo che per 9 giorni attraversano il deserto. Se trovi un po’ d’acqua significa che ti è andata bene. Una volta superato il confine ci hanno consegnato ai trafficanti libici. E da lì comincia un altro viaggio, verso Tripoli. Prima ti mettevano in un campo dove raccoglievano le persone e chiedevano altri soldi. Io avevo 300 dollari in contanti che dovevano bastare per farmi portare a Bengasi e poi da lì a Tripoli. Ma prima di Bengasi ci ha fermato la polizia ed è iniziato il carcere. Ovviamente senza nessun tipo di processo».

Quanto tempo hai passato nelle carceri libiche?
«In tutto un anno e due mesi. Quando la polizia ci ha catturati, ha arrestato sia noi “passeggeri” che i trafficanti. E per un mese siamo rimasti in attesa, in prigione. Poi ci hanno trasferiti in un altro carcere a Bengasi, per altri quattro mesi: nella stessa cella eravamo 40 o 50 persone, con un solo bagno. Si mangiava, si beveva, ma senza niente da fare se non aspettare. Qualcuno si disperava, qualcuno impazziva. Conti i giorni. Io cercavo di restare tranquillo. Non perdere la speranza. E aspettavo. Dopo Bengasi ci hanno spostati a Tripoli. Lì mi hanno trasferito quattro volte in carceri diversi, a distanza di qualche mese l’uno dall’altro. Ci spostavano come pacchi, dividendoci a caso e altrettanto casuale era il periodo di detenzione. Quindi, anche le persone catturate insieme potevano restare in carcere due mesi, o due anni: non c’era modo di saperlo prima».

Tutto questo senza sapere perché vi spostavano così di frequente?
«Era il 2009/2010. La politica di Gheddafi era questa, gli accordi prevedevano di bloccare i migranti in Libia. Come farlo non importava a nessuno. Non a caso, anche se personalmente non ho mai subito torture “vere e proprie”, la polizia ti picchia, ti tratta come se tu non esistessi: non c’è un processo, non c’è un avvocato, non ci sono diritti. Possono fare di te quello che vogliono».

Come sei uscito dal carcere libico?
«Dopo un anno e due mesi siamo stati liberati. Perché una volta all’anno, a settembre, c’erano i festeggiamenti per l’anniversario dell’ascesa al potere di Gheddafi e facevano una sorta di amnistia. Ho cercato di vivere a Tripoli, da clandestino. Andavi in giro senza documenti, con il rischio di essere fermato dalla polizia e quindi di tornare in prigione. Non ti rimane che scappare ogni volta che vedi gli uomini in divisa».

Dove vivevi?
«In una casa grandissima, con quasi 20 persone, dove mi ha accolto un amico che avevo conosciuto in carcere a Bengasi. Eravamo delusi e terrorizzati: avevamo paura delle persone che non erano nelle nostre condizioni. Cercavamo di stare tutti nello stesso quartiere, di stare solo in casa o al lavoro. Va da sé che erano piccoli lavori, ho fatto un po’ di tutto per essere economicamente autonomo. Anche se lì era impossibile ottenere un qualche riconoscimento, anche dopo 10 anni di lavoro sarei rimasto un clandestino. Eppure, sembrava che la situazione fosse tranquilla, che sarei potuto restare. Fino al febbraio 2011».

Cos’è successo nel 2011?
«È scoppiata la rivoluzione, la guerra in Libia contro il regime. È stato il periodo in cui ho avuto più paura. Il paese era entrato nel caos totale. Violenza per le strade, cittadini armati. Si sentiva il rumore degli spari di giorno, quello degli aerei francesi che bombardavano Tripoli di notte. Come se non bastasse, cominciò la propaganda contro di noi: i migranti erano accusati di essere con Gheddafi e di combattere contro la rivoluzione dei cittadini. Tutti noi immigrati, africani e arabi che erano stati bloccati lì da Gheddafi, all’improvviso venivamo visti come i nemici. Inutile dire che era semplicemente falso. Guardavamo la Tv, controllavamo internet, eravamo sempre più preoccupati. Era diventato troppo pericoloso restare. Ci siamo dovuti organizzare per imbarcarci».

Ma i porti libici non erano chiusi?
«Prima sì, ma poi, per vendicarsi dei bombardamenti, hanno “aperto il mare”. E di nuovo, pagando altri trafficanti, ho provato un’altra fuga, questa volta attraverso il Mediterraneo. Il primo tentativo è fallito. Il secondo, su una barca di legno con 235 persone a bordo, mi ha permesso di arrivare a Lampedusa, dopo essere stato salvato da una motovedetta italiana».

Com’è organizzata la traversata?
«Quando i trafficanti ti mettono in barca, loro non salpano con te. Ti devi arrangiare a condurre l’imbarcazione. Per puro caso, sul mio barcone c’era un uomo che sapeva come fare. Provi a tenere la rotta con il Gps, il trafficante ti orienta e ti dice “non perdere questa direzione”. Ma ovviamente non è facile. Per nostra fortuna, il tutto è durato solo un giorno».

Recuperati dalla motovedetta sei arrivato in Italia.
«A Lampedusa ci hanno preso per la prima volta le impronte. Eravamo davvero in tantissimi, quindi ci hanno caricati subito su un’altra grande nave. Dopo tre giorni, siamo arrivati a Taranto. Nessuno ci ha mai spiegato nulla, eravamo molto disorientati. Appena sbarcati a Taranto, ci hanno fatto salire su un autobus e portati a Campobasso, in un campo dove siamo rimasti due settimane circa.  Ci hanno ripreso le impronte e dato dei fogli, i permessi provvisori, e da Campobasso sono stato mandato a Bologna. Poi a Guastalla, dove siamo stati accolti in otto».

Cosa avete fatto a Guastalla?
«A quel punto abbiamo presentato la domanda di asilo. E ancora, abbiamo aspettato: due anni per ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato. Nel frattempo, ci siamo impegnati per trovare lavoro, ma non sapevamo che servivano altri documenti per avere un lavoro “vero”. Pensavamo che, una volta in Europa, avremmo potuto attivarci, invece no. Il Comune ci dava un buono di 75 euro al mese, non in contanti quindi. Ma almeno mi trovavo in una casa dove c’era un bagno per quattro persone e non per 50 come nelle carceri! Insomma, c’era di che essere ottimisti».

Immagino che nell’attesa cercassi di capire come costruire la tua vita qui.
«Certo, ma ho capito ben presto che questa era un’altra realtà, molto diversa da quella che conoscevo e avrei dovuto avere ancora pazienza per sperare di raggiungere un qualche obiettivo minimo. Prima di tutto, l’ostacolo della lingua: parlavo somalo, alle scuole superiori avevo studiato sia inglese che arabo. A Guastalla ho cominciato a studiare l’italiano, anche se ci hanno fatto fare un corso solo di tre mesi. Poi si trattava di aspettare, di nuovo. Infatti, una delle prime cose, e tra le più importanti, è il racconto che devi fare alla commissione. Lì devi essere bravo a spiegarti, il mediatore deve essere bravo ad aiutarti, a raccontarti: in base a come viene giudicata la tua storia, il commissario decide cosa ti succederà. Ho aspettato due anni il giudizio della commissione. Alla fine, ho ottenuto la protezione sussidiaria (una delle tre forme di protezione che lo Stato italiano prevedeva, ndr)».

Una volta ottenuta la protezione, finalmente, è fatta. O no?
«Eh, no. A quel punto esci dal contratto di accoglienza e devi lasciare la struttura dove sei stato accolto. Ti dicono “cari miei, è il momento di arrangiarsi”. Ti ritrovi senza una casa, devi trovare un modo per mantenerti ma almeno, finalmente, con un documento puoi viaggiare. E io sono andato in Norvegia. Era il 2013 quando ho lasciato l’Italia. Come sempre, avrei voluto trovare un lavoro, ma a causa dei limiti imposti dal regolamento di Dublino, il permesso di soggiorno italiano non consente di lavorare in un altro stato europeo. Prima di partire, però, non lo sapevo: per i primi tre mesi potevo rimanere come turista, poi sarei dovuto tornare in Italia. Mi sono comunque fermato un anno in Norvegia, lavorando in nero dove capitava. Poi alcuni amici del progetto di accoglienza a Guastalla, essendo rimasti in Italia, hanno saputo dello Sprar (sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, ndr) di Parma, quindi nel 2014 sono tornato qui».

In pratica, per andare da Guastalla a Parma sei passato dalla Norvegia.
«Paradossalmente, sì! E quando, dopo tre mesi dalla richiesta, mi ha chiamato un’operatrice di Ciac per comunicarmi che ero entrato nel progetto Sprar, mi trovavo a Taranto, da un mio amico che mi aveva accolto. Sono partito per Parma subito. Lo Sprar è stato ciò che mi ha permesso di creare delle basi. Ci hanno dato un appartamento vicino a stradone Martiri della Libertà, dove ho vissuto con altri ragazzi stranieri per circa un anno. E in quel periodo ho potuto finalmente frequentare la scuola, i corsi di lingua italiana, i corsi di formazione specializzata. In quell’anno, grazie al progetto, ho conosciuto il territorio, ho imparato come “funzionano le cose” in Italia – anche ad esempio come andare dal medico di base, o come compilare un curriculum per cercare lavoro».

Se dovessi riassumere la tua esperienza nello Sprar?
«Direi che per la prima volta dopo anni ho avuto la sensazione di poter fare qualcosa, di poter costruire qualcosa per la mia vita. Ho fatto un corso da metalmeccanico, ho fatto un tirocinio, il mio primo lavoro “ufficiale”, da giungo a dicembre del 2015. Dopo anni ad aspettare senza poter progettare nulla, stavo lavorando (anche se dopo il tirocinio non mi hanno assunto). Poi, ho lavorato in un supermercato, ho fatto il magazziniere per un anno intero nel reparto ortofrutta. Non mi hanno assunto neanche lì, ma la cosa importante era l’occasione di poterlo fare».

E passato l’anno del progetto?
«È iniziato un altro progetto di accoglienza, nel 2016, il progetto di “Rifugiati in Famiglia”. Sono stato uno dei primi ad avere questa opportunità, per la quale una famiglia italiana mi ha accolto in casa. Sarei dovuto restare nove mesi ma alla fine ho vissuto con loro più di un anno. Qui ho finalmente imparato bene la lingua, mi sono integrato davvero. È servito a me, ma credo anche alla famiglia. Abbiamo imparato molto sulle rispettive culture e abbiamo dimostrato che accogliere è possibile. Questa è l’esperienza che mi ha permesso di diventare un mediatore culturale. Quando sono stato convocato da una cooperativa, nel 2017, ho scoperto che potevo essere un ponte tra l’Italia e chi si sentiva perso, proprio come me poco tempo prima. Non sei solo un traduttore per i tuoi connazionali, ma diventi una guida in una terra ancora straniera».

A questo punto non posso evitare la domanda: cosa ne pensi dello smantellamento dello Sprar previsto dal decreto Salvini?
«Vuol dire togliere diritti costituzionali a chi già si trova in difficoltà. Vuol dire moltiplicare a dismisura i problemi, che sono già tanti così. Lo Sprar, infatti, non è mai abbastanza: le richieste sono sempre più dei posti disponibili. Ma almeno prima qualcuno, come me, poteva trovare un modo di vivere senza diventare illegale».

Dopo tutto quello che hai passato, se lo avessi saputo saresti partito lo stesso?
«Nel 2008 in Somalia ero in pericolo, rischiavo la vita. Partire e affrontare un viaggio per quanto pericoloso, era comunque una prospettiva migliore. Perché in viaggio c’era una speranza. Tutto dipende dalla tua fortuna e dal tuo destino. Arrivare in Europa, trovare un posto sicuro, era quello che speravo. Il mio destino mi ha voluto a Parma. Vivo».