di Stefano Manici
In classe c’è un’atmosfera a dir poco caotica, la classica ora buca, potete solo immaginare il volume e la densità dei rumori che si sommano uno ad uno, siamo in un istituto tecnico professionale, primo anno. Il volume è davvero troppo alto, i corpi si muovono un tutte le direzioni, la situazione sembra sfuggire di mano. Mi alzo, sferro un pugno sul tavolo, alzo la voce, urlo “Ragazziii…!!!” senza conoscere minimamente l’esito del mio goffo tentativo. Stranamente i più si fermano, forse sorpresi da tanta arroganza autoritaria, sembrano voler ascoltare.
Dico solo che non posso tollerare che tutta l’ora si volga in questo modo, propongo un gioco. Mentre dico “gioco” nella mia mente si accavallano ricordi di tanti anni di attività animative, giochi, esercizi, gruppi, facce, ragazze, ragazzi. So di essere entrato nella sterminata prateria dell’improvvisazione, so di essere salito su un pericolosissimo crinale, ma ormai è tardi. Propongo di spostare i banchi e formare un cerchio con le sedie. Non l’avessi mai fatto, lo strepitio delle sedie sul pavimento e le urla sfondano il muro del suono, siamo entrati in una galassia sconosciuta.
Dico che il “gioco” consiste nell’ascoltare una frase del sottoscritto e schierare le gambe in tre modi diversi, conserte, accavallate o stese, che corrispondono a essere indecisi, essere d’accordo con la mia affermazione, essere contrari. Aggiungo che ad alzata di mano ognuno può giustificare la propria presa di posizione e soprattutto deve convincere gli altri ad assumere la stessa posizione, in modo da formare una maggioranza, alla fine vinceranno coloro che saranno in posizione di maggioranza.
La prima frase è : “Tutti gli stranieri devono avere una casa”. L’atmosfera si fa densa da subito, stranamente il caos lascia lentamente spazio ad un sottile e fragile silenzio che si colloca proprio nel mezzo del cerchio, chiedo di schierare le gambe aggiungendo di prendere la frase così come si presenta e che non aggiungerò commenti, sarò solo un arbitro imparziale. Le gambe iniziano timidamente a muoversi, qualcuna in avanti, qualcuna indietro, qualcuna si accavalla con la propria gemella. Nello spazio di circa un minuto tutti si schierano e si alzano le mani, dico anche che ognuno può cambiare posizione nel momento in cui venga convinto dall’intervento dell’altro. Concedo la parola ad una persona della minoranza, la classe è spaccata in tre tronconi, regna l’indecisione e si vede l’urgenza di alcuni di intervenire.
Man mano che ascolto gli interventi l’atmosfera si scalda al ritmo dei seguenti interventi: “prima la casa agli italiani”, un ragazzo albanese afferma che suo padre non aveva nulla e che gli sono state date opportunità enormi, un altro dice che non tutti gli stranieri sono criminali o nullafacenti, egli conosce addirittura qualcuno che ha voglia di lavorare, un altro, bulgaro, afferma che la propria famiglia ha appena accolto un richiedente asilo in casa, una ragazza dice che l’altro giorno al centro commerciale una signora urtata da un ragazzo di colore ha iniziato a insultarlo davanti a tutti, dice che lei si è vergognata ma non spiega perché, alcuni iniziano a insultarsi e a parlare più forte, l’avevo previsto, fermo il primo giro di consultazioni.
Dico solo che ora cambierò frase, ed è la seguente: tutti i migranti hanno diritto ad avere dei diritti. Il silenzio ora è più forte, più denso di prima, ha un colore indecifrabile.
Le gambe tornano a muoversi e schierarsi, qualcuno torna ad affermare “prima noi!”; chiedo chi intende per “noi” e dice gli italiani, una ragazza dice che devono esistere diritti inalienabili, un altro porta l’esempio dell’Italia che dà diritto a tutti i minori di avere un’istruzione e un primo soccorso, un altro interviene quasi bestemmiando dicendo che ci vogliono le ruspe, la maggioranza scoppia a ridere. Però succede una cosa strana, man mano che il gioco e il dibattito avanzano il clima si fa più leggero, moderato.
Il clima è stranamente pacato, tutti ora hanno voglia di confrontarsi, tutti forse hanno capito quanto sia utile e importante il peso delle parole. La sensazione che si fa largo in me è che il dibattito adulto rischia spesso di stravolgere e corrompere i concetti e i valori chiave della nostra cultura. Come quando si chiede a un ragazzo di colore da dove viene, senza minimamente soppesare la sua storia e manifestando solo la selva di pregiudizi che abitano il cittadino medio. Nessun ragazzo si sognerebbe mai di chiedere la stessa cosa a un coetaneo, perché la sua cifra comportamentale è contraddistinta dalla spontaneità.
Dopo alcuni interventi e altre frasi concludo dicendo alla classe che sono rimasto molto sorpreso dall’atteggiamento generale della classe e dalla maturità di alcuni interventi, soprattutto dal clima civile che ho respirato, dico anche che al contrario della tv e della maggior parte dei suoi format televisivi oggi siamo riusciti a discutere pacatamente di un tema che solitamente viene affrontato in modo violento e alterato, ad esempio sui social dove vince l’istinto, affermo che oggi abbiamo eseguito un esercizio di democrazia e che anche i commenti più lontani dalle mie posizioni sono riuscito ad accoglierli perché dichiarati con toni pacati e con rispetto dell’altro, che questo è l’importante, il rispetto dell’altro. Concludo dicendo che probabilmente non esiste solo una soluzione ai problemi che abbiamo discusso. Molti alunni si dicono contenti per l’ora trascorsa in questa modalità.
Alla fine dell’ora suona la campanella, “maledetta” penso, la classe rimette a posto i banchi in modo quasi civile, dico che spero non sia stata solo un’ora buca ma un’ora guadagnata.
È da quest’esempio che vorrei partire per costruire una breve riflessione sui ragazzi e le ragazze che incontro ogni giorno nei nostri territori. Da diversi anni mi occupo di progetti socio-educativi per adolescenti (centri giovani, progetti educativa di strada, laboratori nelle scuole) e da alcuni anni insegno, soprattutto nella formazione professionale. Ogni settimana incontro circa due/tre cento ragazzi in vari ambiti, a scuola, in strada, nei centri giovanili.
Come sarebbe logico nella mia professione non posso fare a meno di interrogarmi e riflettere sulle azioni che conduco, sui mandati istituzionali che sono tenuto ad osservare, sul contesto sociale che mi circonda, sulle dinamiche e sui cambiamenti che attraversano il mondo giovanile.
Penso di aver maturato alcune convinzioni di fondo che mi piacerebbe confrontare con tutti coloro che operano nelle agenzie educative che interessano l’adolescenza, docenti, educatori, medici, psicologi, neuropsichiatri, ecc.
In primis alcune considerazioni che vogliono orientare un discorso che possa immaginare orizzonti pedagogici “altri” , poiché penso che è proprio dall’educazione e dalla pedagogia che bisogna ri-partire, oserei dire in un’accezione politica.
Intanto si tenga in considerazione la crisi del tessuto sociale, dal sistema famiglia al sistema lavoro: quali risorse mettere in campo in chiave educativa per affrontare una vera e propria emergenza sociale? In secondo luogo, non si dimentichi la crisi del sistema scolastico e una riflessione sulle nuove strategie legate all’istruzione. Infine, affronterei la questione del potere dell’informale e la generazione di un quarto sapere, che muove dall’esperienza, che sappia dare voce alle proposte del mondo giovanile e che possa immaginare un nuovo percorso “politico” di ragazzi e ragazze .
La sterminata letteratura contemporanea sull’adolescenza sembra convenire su un fatto: a fronte delle crisi che contraddistinguono qualsivoglia campo umano, dall’economico a quello valoriale, bisognerebbe individuare nuove strategie di intervento che possano spaziare dal campo dell’istruzione a quello della formazione, privilegiando percorsi partecipativi e non esclusivi o escludenti, costruendo percorsi creativi e non già decisi, immaginando percorsi trasformativi e non conservativi per i nostri ragazzi.
La storia dei modelli pedagogici si è strutturata seguendo due modelli prevalenti: da una parte il modello autoritario, direttivo, attento alla promulgazione di un sapere in modalità top-down, un sapere verticale che è il modello delle istituzioni scolastiche, degli interventi di assistenzialismo sociale, degli interventi di prevenzione sociale, perfino del processo di medicalizzazione. D’altra parte negli ultimi anni si assiste al proliferare di esperienze pedagogiche improntate all’orizzontalità, che favorisca processi di apprendimento dal basso, che sappia generare a livello teorico e soprattutto pratico esperienze concrete di pedagogia sociale, per riprendere un termine proposto da Sergio Tramma, professore universitario di Scienze dell’educazione della Bicocca di Milano, che “racchiude in quest’area i tentativi di produrre orientamenti e operativi per l’insieme delle pratiche educative che si svolgono anche fuori dalle mura scolastiche”.
Nel primo modello sussiste una visione di adolescente da educare, cui impartire valori “fissi”, uno scolaro cui inculcare letteralmente i paradigmi dell’esistenza. Questo modello che è stato sposato da miriadi di istituzioni e progetti per decenni, vive tutt’oggi di sana e robusta costituzione anche nelle moderne democrazie occidentali, laddove troppo spesso l’educazione rappresenta ancora solo un modello di adattamento alle regole sociali e di asservimento alle logiche istituzionali. Questo modello è stato progressivamente analizzato, vivisezionato e criticato da un filone di pedagogisti “storici” (Freire, don Milani) e che trovano testimonianza anche nel novero di diversi autori nazionali contemporanei (Pietropolli Charmet, Galimberti, Demetrio) che scrivono di adolescenza.
Ciò che vuole rappresentare invece il secondo modello è uno stravolgimento pedagogico che mira a fare dell’adolescente un costruttore e un protagonista del proprio destino, possibilmente affiancando altri adolescenti e inserendosi nella costruzione di processi ri-generativi. In questa soluzione si immaginano percorsi nei quali i ragazzi dei nostri territori possano sperimentare autonomia, responsabilizzazione, co-gestione e cambiamenti. Siamo nel campo dell’educazione informale, un modello che se ben misurato ed equilibrato, potrebbe sconfinare nel campo dell’educazione formale per ri-generarla e ri-formularla.
In un contesto sociale in cui i focus comunicativi, sia a livello di mass media che nei contesti familiari, nella dimensione on line, sembrano concentrarsi sui termini emergenza, crisi, paura, disoccupazione giovanile, creando un vero proprio “panico lessicale” nei ragazzi e nelle ragazze (così come essi stessi rappresentano il mondo adulto), in un humus culturale in cui il modello adulto e la coesione familiare non reggono (quanti ragazzi senza padri, quanti “compagni delle madri” o “dei padri”, quanti migranti senza nonni!?, solo per fare qualche esempio); e ancora, in un orizzonte nel quale il termine lavoro evoca un mito lontano e la parola scuola evoca ordine e disciplina, quali dispositivi pedagogici si possono allora immaginare?
In una scuola in cui la maggior parte degli adulti non possiede le cosiddette competenze sociali per guidare un gruppo di adolescenti e in cui il sentimento più diffuso è il lamento adulto, perché non provare a responsabilizzare gli studenti nella realizzazione di percorsi più partecipati e sperimentare percorsi dal basso, dove ad esempio siano gli stessi studenti a immaginare gli spazi e i tempi, dove si possano operare scelte, perché non lasciare libere le sedie sulle quali prendere le decisioni?
Una prospettiva educativa che sappia stravolgere le vesti dell’apprendimento può “cambiare le cose”, un apprendimento che non sia immobilità passiva ma vertigine, spaesamento, passione.
Quali prospettive? D’istinto verrebbe da dire nessuna e arrendersi all’evidenza di una società ammalata, dove, per dirla con lo psicanalista Zoja, stiamo assistendo “alla morte del prossimo”, ovvero ad un processo di disumanizzazione e di impoverimento, all’emersione di un sentimento di indifferenza nei confronti del “vicino” che non può che uccidere le illusioni di costruire un mondo diverso.
Ma chi, come il sottoscritto, opera da vicino con il mondo adolescenziale non può certo e non vuole immaginare orizzonti nefasti e per fortuna può solo attingere alle innumerevoli potenzialità insite nel mondo adolescenziale. È questa una sorta di postura che bisognerebbe assumere in qualsiasi progetto educativo, attingere e confrontarsi, non avere la presunzione di insegnare ma aspettarsi anche di crescere con l’altro, misurarsi nella tensione, contrattare, crescere insieme.
L’educazione informale proposta da diversi autori ed educatori e l’emersione di quello che Piergiorgio Reggio, formatore ed esperto di adolescenza, chiama “quarto sapere” costituiscono a mio avviso una strada da provare a percorrere. All’interno di questi due orizzonti mi sembrano si possano annoverare le innumerevoli esperienze che possono dare luce ad una sorta di pedagogia “rivoluzionaria” e “libertaria”.
Questi approcci teorici si fondano sulla convinzione che sia necessario dare il potere educativo nelle mani stesse dei ragazzi e delle ragazze, creando i presupposti per percorsi davvero partecipativi e realmente costruiti dal basso. Come afferma Fabio Vanni, psicologo esperto di adolescenza sul nostro territorio di Parma, “sarebbe opportuno accompagnare la presenza sociale degli adolescenti. Le esperienze oggi esistenti sono pressoché simboliche, ma questa mancanza di potere reale da parte dei ragazzi non può essere vista se non come emblematica del valore che diamo al loro contributo nella soluzione dei problemi e alla loro futura presenza come cittadini. Dunque se vogliamo che gli adolescenti e i giovani entrino con il loro stile nella realizzazione futura di un mondo che ci appartiene temo che dovremo fargli spazio”.
Allora ecco che le esperienze di educazione informale come ad esempio la co-progettazione di adulti e giovani di spazi sociali quali uno skatepark, un circolo, un centro sociale (sì, anche quello), una sala prove musicale, possono creare i presupposti per una dimensione partecipativa e responsabile dei nostri ragazzi.
Alcune piccole esperienze dell’ultimo periodo possono aiutare la riflessione. Lavoro nel Centro giovani del quartiere San Leonardo di Parma, in un contesto sociale descritto dai mass media come Bronx. Per quanto possa far sorridere l’appellativo Bronx in una realtà come quella della nostra piccola città ,il territorio è vissuto da una percezione diffusa di malcontento, paura e delusione dalla maggior parte dei cittadini. I ragazzi del centro giovani spesso scherzano sulla presenza degli spacciatori agli angoli delle strade e comunque hanno una percezione deviata di cittadinanza, laddove ormai reputano normale lo scambio e l’assunzione di sostanze in pieno giorno.
Come equipe educativa del centro di aggregazione abbiamo scelto di progettare un percorso insieme ai ragazzi coinvolgendo diverse associazioni del quartiere, con lo scopo di costruire alcuni momenti animativi nelle piazze e nei luoghi più fragili dal punto di vista della coesione sociale. Abbiamo chiesto ai ragazzi di ideare alcuni giochi ed alcune attività per i coetanei e per i bambini, inoltre abbiamo chiesto alle associazioni di venire in piazza con le proprie risorse e le attività che svolgono nella loro quotidianità. Così è nata “San Leonardo gioca!!!”, una rete assolutamente informale nella quale i ragazzi recitano la parte dei protagonisti, nel vero senso della parola. Inutile dire che i pomeriggi animativi si sono rivelati un successo, con centinaia di persone accorse che ci pregano di ripetere l’esperienza.
Abbiamo deciso di creare un micro comitato di ragazzi che dovrà costruire le prossime edizioni e che dovrà immaginare di coinvolgere altri ragazzi del quartiere. Un piccolo esempio per confermare le potenzialità insite nel modello educativo informale che si allinea alla prospettiva tracciata dal modello dell’apprendimento esperienziale, cosi come afferma Piergiorgio Reggio, formatore di Metodi Milano, che afferma che “bisogna fare l’esperienza, trasformando i fatti in apprendimenti”. Ciò che deve avvenire per i nostri ragazzi è proprio questo movimento rivoluzionario che non li vede solo come pedine della logica del consumo o peggio ancora come meri spettatoti della crisi globale ma che li erge a paladini del cambiamento. Ciò che si auspica è la creazione di un sapere diverso da quello tradizionale che non sia solo sapere, sapere fare, sapere essere, ma anche fonda il proprio focus sull’esperienza e che dall’esperienza sappia costruire nuove esperienze condivise e socialmente utili.
Allora, per concludere, diamo ai ragazzi alcune sedie dei nostri tavoli decisionali e scommettiamo davvero su di loro.