Serve un’altra narrazione sui femminicidi

di Casa delle donne di Parma

Foto di Gianluca Foglia Fogliazza.

Lo scorso 24 ottobre è stato ritrovato il corpo di Marina Cavalieri, uccisa dal marito a Sant’Andrea Bagni (PR) all’età di 62 anni. Il suo nome si aggiunge alla lista dell’Osservatorio Femminicidi Lesbicidi Transcidi in Italia di Non Una Di Meno che fino al mese di settembre contava 90 casi solo nel 2024. Proprio considerando i dati non possiamo non provare una profonda rabbia per le parole scelte nei giorni scorsi dalla “Gazzetta di Parma” per titolare l’accaduto.

La scelta di queste parole ci dimostra nuovamente quanto alcune testate giornalistiche siano ancora lontane dalla comprensione del fenomeno, primo passo necessario per poterlo denunciare e, poi, cambiare.

Nello specifico, è necessario riconoscere la distinzione sostanziale tra una “crisi coniugale” e una violenza domestica. Mentre nella prima si presuppone un rapporto di scambio tra soggetti agenti con parità di potere, e dunque responsabilità, nella seconda il rapporto è impari e di dominio, tra un soggetto agente maschile e un oggetto agito femminile, privato di individualità e di ogni suo diritto, compreso quello alla sua stessa vita. I femminicidi sono infatti la più evidente manifestazione della disparità di potere tra i sessi. Non operando questa differenziazione tra crisi coniugale e violenza si produce un effetto distorsivo della realtà, che non problematizza la violenza all’interno delle relazioni affettive e che rende dunque impossibile l’individuazione di diritti e responsabilità.

Un altro aspetto problematico della narrazione è costituito dalla ricerca di dettagli privati e dalla tendenza al sensazionalismo, come il rimando ai conoscenti che “ricordano la vittima”. Esse violano il privato della vittima stessa oltre a non rispondere al criterio di utilità pubblica, che invece dovrebbe essere essenziale in una notizia di cronaca.

Infine, parlare di “ricerca di un movente”, in caso di femminicidi, significa dimenticare che le donne vengono uccise in quanto tali. Infatti è importante compiere un passaggio ulteriore e comprendere che il controllo maschile sulla libertà femminile, e dunque l’iniqua distribuzione di potere tra i sessi, non sono da ricercarsi in individui o casi isolati. Sono invece il prodotto della cultura patriarcale, la quale proprio attraverso la loro ricorsiva e sistematica legittimazione riproduce e rinforza se stessa permeando in modo capillare la nostra società.

Operare questa contestualizzazione permette di allargare lo sguardo, spostare il femminicidio dalla singola vicenda privata ad un più strutturale e complesso problema sociale, e dunque adeguare gli strumenti di contrasto al fenomeno alla sua complessità.

Uno tra questi è proprio il linguaggio, che lontano dall’essere neutrale si rivela tristemente ancora un potente alleato del sessismo latente e responsabile della sua stessa riproduzione. In questo circolo vizioso, se la stampa non rivoluziona lo schema narrativo, problematizzandolo, si rende fautrice della riaffermazione della stessa cultura di cui il femminicidio è il prodotto.