di Stefano Manici
In questo periodo il tema delle cosiddette baby gang rimbalza sulle prime pagine dei giornali cittadini ed è oggetto di interesse dei social network, attraverso una narrazione oscillante tra la cronaca nera e i toni da denuncia. In qualità di educatori, insegnanti, pedagogisti, psicologi, addetti ai lavori del terzo settore, artisti e tutte le persone che lavorano a contatto con il mondo giovanile in progetti educativi, tutti coloro che si sentono far parte della cosiddetta “comunità educante”, ci sentiamo di esprimere anche noi un pensiero in merito, senza avere la pretesa di essere esaustivi e soprattutto giudicanti di un fenomeno che meriterebbe un’analisi molto più ampia.
Con questo intervento vorremmo dare impulso a una discussione pubblica sui ragazzi della nostra città. Lo diciamo fin da subito: non siamo favorevoli ad una risposta repressiva, che rischierebbe di non essere una risposta esaustiva del problema. I toni e le frasi utilizzate nel “tritacarne social” e anche alcune forzature della stampa locale non rientrano nel nostro modo di pensare e di guardare al mondo giovanile, con il quale ogni giorno ci spendiamo nel diffondere valori come accoglienza, condivisione, attenzione per l’Altro, rispetto delle differenze e delle diversità, inclusione.
Coloro che lavorano nel quotidiano con ragazze/i dei nostri territori sanno che la professione educativa si basa un accurato lavoro di relazione, che va dall’ascolto al contatto empatico, dall’accompagnamento all’empowerment, tecniche che necessitano tempo e flessibilità.
Da educatori non possiamo assistere inermi ad un dibattito pubblico che da una parte strumentalizza il fenomeno a livello politico e nel disagio dei ragazzi vede solo l’ennesima occasione per ergersi nel ruolo di sceriffi locali, dall’altra amplifica il problema solo per proporre soluzioni repressive. La logica dei “due calci nel sedere” o del richiamo all’esercito propone soluzioni che nulla hanno a che fare con una lettura più profonda del problema e che rimandano ad una società che non esiste più, nella quale queste tipologie di problemi potevano essere contenute grazie ad una rete sociale più coesa. Anche la logica che vede gli stranieri i soli protagonisti in negativo non regge più, il fenomeno è molto più trasversale e lambisce giovani di diversa provenienza ed estrazione sociale. Che lo si voglia o no, viviamo in una società ibrida, multietnica, liquida, all’interno della quale le parole devono avere un peso specifico, il lessico deve aiutare a costruire significati condivisi e non a separare le persone, non esistono gli stranieri, i diversi, gli strani, esistono le persone.
Non vogliamo neanche nasconderci, a nessuno di noi fa piacere osservare certi comportamenti o leggere di alcuni episodi in centro città o nelle periferie, sappiamo bene come e dove agiscono alcuni gruppi giovanili del centro città, conosciamo alcuni di loro: la loro occupazione dello spazio pubblico che si manifesta nell’illegalità è una richiesta di visibilità ma nello stesso tempo di aiuto, rappresenta una protesta nei confronti di un mondo adulto che prefigura scenari esclusivi, competitivi, selettivi, un mondo che non piace e che non accoglie le giovani generazioni se non seducendole attraverso il mantra del consumo.
Partiamo dall’analisi dei problemi e infine cerchiamo di proporre alcune idee per affrontare il problema, per motivi di necessità cercheremo di essere molto sintetici, in questo senso saremo anche molto diretti:
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Gli adolescenti di oggi vivono in una società “consumista”, liberista, all’interno della quale i brand giocano un ruolo molto più attrattivo delle istituzioni e delle agenzie educative; l’esigenza di avere l’immagine di un certo tipo fa sì che molti ragazzi si sentano esclusi dal mondo, esiste una forbice economica che è sempre più larga e che polarizza i ceti sociali. In questo contesto cresce la rabbia sociale degli esclusi e di coloro che non si sentono compresi da questo modello; quali soluzioni offre il nostro centro città che non sia un negozio o un bar dove la socialità è mediata dal consumo? E’ giusto sottolineare che a Parma da diversi anni si investe sulla prevenzione attraverso progetti come i centri di aggregazione giovanile, i progetti di educativa di strada e una miriade di progetti che guardano con attenzione al mondo giovanile: è altrettanto doveroso sottolineare che senza un indirizzo di coesione sociale maggiore della comunità, senza un’attenzione forte del mondo adulto i progetti rischiano di costituire delle isole. A titolo di esempio non è difficile vedere in pieno centro locali commerciali che servono da bere aperitivi alcolici a minorenni. In questo contesto dedito solo al consumo l’azione educativa perde il suo slancio e risulta debole. Il modello “Parma città vetrina” proposto da più parti rischia di puntare più sull’immagine che sulla prevenzione, non sarebbe più utile scommettere sulla prevenzione e su modelli più positivi che fomentare la cultura delle movide?
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Le agenzie educative tradizionali versano in uno stadio di transizione e di sofferenza: a quale modello di famiglia si rifanno coloro che la invocano sui social network, quella tradizionale che costituisce ormai una minoranza, padre-madre-figli, quella dei nuclei separati, quella delle migliaia di famiglie mononucleari, quella delle centinaia di ragazzi che vivono senza una famiglia? I nostri ragazzi vivono situazioni molto eterogenee tra loro, spesso in situazioni di disagio o disorientamento affettivo. Cosa si intende quando si dice che la scuola non educa più come una volta, quando registriamo tassi di bocciature al primo anno delle superiori che superano talvolta il 30%, sia nei licei che negli istituti tecnici, come possono reagire i nostri ragazzi alle moltitudini di 2,3 e 4 dei voti numerici che li classificano come incompetenti e li costringono all’abbandono? In generale, nello sguardo sull’adolescenza sembra affermarsi una tendenza di fondo che promuove sempre di più il processo di delega da un’istituzione all’altra.
Chi si assume la responsabilità dell’educare?
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Esiste un problema legato al futuro, come dimensione esistenziale e concreta, cosa possono sperare di costruire i nostri ragazzi che subiscono da anni la logica dei tre mesi di contratto rinnovabili proposti dalle aziende? Riusciamo a invertire il trend dei percorsi professionali seguendo una logica di reale valorizzazione delle competenze e non di mero sfruttamento?
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I servizi sociali sono ormai ridotti a tamponare le emergenze e non sono più in grado di far fronte al disagio crescente economico e sociale che colpisce anche la nostra città dopo oltre 10 anni di crisi. La riduzione del personale, lo scarso riconoscimento sociale ed economico del lavoro educativo e l’aggravarsi della crisi sono alcuni degli ingredienti del problema che investe anche le giovani generazioni e le loro famiglie.
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I nostri ragazzi sono sempre più affascinati da modelli che diffondono stili di vita legati alla sopraffazione e all’ostentazione del denaro, dove il maschile regna sul femminile considerandolo un oggetto e in un contesto nel quale dovrebbe vincere la legge del più forte: questa è la narrazione che abita i video e i testi musicali di successo e che viene sapientemente gestita dal mainstream a caccia di consensi e denaro. Riusciamo a invertire questa tendenza e a ipotizzare scenari diversi per i nostri ragazzi, facendoli comunque sentire protagonisti?
Alcune proposte:
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Aumentare la spesa sociale destinata alla formazione, alla cultura e all’istruzione, è una scommessa culturale che si deve vincere, partendo dalle istituzioni più alte fino a quelle locali. Occorre tornare a investire nelle politiche sociali, costruendo un piano a lungo termine adeguatamente finanziato a livello pubblico. La stagione dei progetti innovativi finanziati dal privato ha mostrato margini di criticità, non riuscendo a coagularsi in un progetto complessivo.
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Destinare luoghi alla comunità e al mondo giovanile, dove sperimentare esperienze reali di partecipazione e di condivisione, luoghi da trasformare dal basso in palestre civiche di apprendimento, scommettere sulla creatività e sulla ri-generazione dei territori. Dare uno spazio di rappresentanza politica ai gruppi giovanili.
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Stimolare reali percorsi di educazione civica, fortemente esperienziali, dove i ragazzi possano toccare con mano determinate situazioni legate alla solidarietà, alla condivisione di valori del protagonismo e dell’inclusione nelle comunità. Si può fare molto di più a scuola, possono farlo le istituzioni, in parte sono pratiche già sperimentate nelle realtà del terzo settore, serve una sinergia più forte;
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Formare equipe multi-disciplinari all’interno delle scuole, come già avviene in altri paesi europei ed extra europei, dove varie figure professionali affiancano quella del docente, prevedere figure di tutoraggio nelle classi attraverso l’accompagnamento di figure educative stabili, che abbiano una forte attenzione al singolo. E’ un’operazione costosa, ma ne vale la pena.
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Scommettere sulla cultura e prevedere nelle nostre piazze eventi e laboratori anche per la fascia adolescenziale, eventi che sappiano coinvolgerli come protagonisti, partendo dal ricco tessuto sociale della città; coinvolgere le realtà culturali e artistiche in modo strutturale e non solo episodico.
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sostenere il mondo dello sport e l’associazionismo sportivo per favorire il protagonismo sano dei giovani.
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Investire sensibilmente su progetti di formazione professionale mettendo al centro le risorse digitali e il sapere artigianale, valorizzare il sapere delle mani unitamente al sapere intellettuale attraverso percorsi stabili che possano avvicinare gradualmente i giovani ad un mondo del lavoro più umano e meno competitivo. Coinvolgere gli imprenditori locali per sostenere progetti dedicati al mondo giovanile.
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