Insorgiamo!

di Cristina Quintavalla

Un momento della manifestazione del 24 luglio a Campi Bisenzio (Fi), organizzata dal collettivo di fabbrica della GKN

A chi reiteratamente giura e spergiura che la classe operaia è ormai defunta e che quella che è rimasta sopravvive a sé stessa e a una storia di inarrestabile uscita dalla fabbrica fisica, sarà sembrato un incubo la manifestazione di sabato 24 luglio a Campi Bisenzio, organizzata dai/lle lavoratori/trici della GKN.

Un’orda di migliaia e migliaia di lavoratori/trici molto arrabbiati/e e molto determinati/e ha marciato per alcune ore lungo tutto il perimetro della cittadella industriale, dalle cui fabbriche, coi cancelli accuratamente serrati, si alzavano braccia a pugno chiuso in solidarietà con i/le compagni/e che manifestavano, scendevano striscioni per dire che la loro lotta era la lotta di tutti, si levava il grido di rabbia di un proletariato silenziato e marginalizzato per troppo tempo.

“Siamo tutti GKN!” era l’urlo che ha attraversato come un brivido caldo tutto il corteo, a segnare il salto di qualità di una lotta che potrebbe costituire l’avvio di un processo di riunificazione di tutto quel mondo del lavoro, squassato e martoriato dai processi più avvelenati della frammentazione. Lì c’erano i lavoratori delle principali vertenze aperte nel paese, a cominciare dalla Whirpool di Napoli. Ma c’erano anche i lavoratori della Fedex di Piacenza e dei presidi di lotta più combattivi aperti nella logistica.

Il segno di una svolta. I lavoratori immigrati, che hanno aperto con gli scontri più duri e dolorosi la stagione delle lotte operaie nel paese, che hanno pagato un prezzo altissimo per effetto di una feroce repressione − fogli di via, incarcerazioni, perquisizioni − sabato 24 luglio, alla GKN, si sono posti come parte integrante del movimento dei lavoratori. Lo sono per un diritto acquisito in campo (dalla logistica, alle campagne, fino alla macellazione della carne) dove hanno messo i loro corpi davanti ai mazzieri e alle forze dell’ordine, lasciando sul terreno l’operaio Adil, simbolo di una lunga lotta di schiavi che sembrava senza riscatto. Si sta saldando un fronte, foriero di grandi prospettive per il futuro, che si misurerà a partire dallo sciopero generale proclamato per il 18 di ottobre da tutto il sindacalismo radicale e di base, unito per la prima volta.

Ma il vero rovesciamento di prospettive l’hanno dato i/le lavoratori/trici della GKN, che si sono dimostrati vera avanguardia operaia: la lotta per la salvaguardia del loro posto di lavoro non passa in primo luogo attraverso concertazione, trattative, buonuscite per portare a casa la pelle. Passa attraverso un’insorgenza del mondo del lavoro, tutto, a partire da quello che sta “peggio di noi“ (Dario, dai microfoni davanti a GKN) − i precari, i lavoratori delle piattaforme, quelli affittati da false cooperative, da agenzie di interposizione, somministrati, appaltati, finti autonomi − per spostare i rapporti di forza, sempre più  oppressivi e avvilenti tra capitale e lavoro, contro il processo di cannibalizzazione del lavoro da parte del capitale, contro la “gigantesca rivoluzione dei ricchi contro i poveri, dei padroni contro i sudditi, dei dominanti contro i dominati”[1] in atto da troppo tempo.

Ai moderni schiavi senza diritti – lavoratori licenziabili e ricattabili, lavoratori a chiamata, a tempo determinato, pagati a cottimo, raccoglitori, magazzinieri, telefonisti, addetti alla logistica, all’assistenza, alle pulizie, al turismo, nelle campagne o nelle imprese, impiegati in qualsiasi settore produttivo del paese, senza ferie pagate, senza diritto all’astensione dal lavoro per malattia, senza diritto di sciopero, senza retribuzioni dignitose, con turni massacranti, senza orari di lavoro − parlano i/le lavoratori/trici della GKN e chiedono a loro, a noi, se siamo pronti ad insorgere, ad auto-organizzarci, a sostenere una lotta di lunga durata, di “difficile, forse impossibile” esito (sempre Dario).

Hanno soprattutto la consapevolezza, raggiunta a partire dalla loro esperienza lavorativa, della trasformazione, insieme con gli stessi assetti proprietari, dei caratteri, della natura, degli scopi delle imprese stesse. Lo hanno denunciato nei loro interventi a Firenze, a Campi Bisenzio, nel corso di interviste: i fondi di investimento acquisiscono fabbriche, le ristrutturano, ne tagliano pezzi, lucrano e poi scappano; chiudono, licenziano e infine delocalizzano, laddove il business si ripropone più remunerativo. È quello che ha fatto Melrose Industry con la GKN.

L’assalto dei fondi di investimenti alle imprese ha mutato la natura delle imprese stesse, “assoggettate al paradigma che privilegia la massimizzazione del valore per gli azionisti, perché la sola cosa che conta per l’azionista è il valore di mercato dell’impresa indicato dal corso attuale delle azioni quotate in borsa”[2] e non più il fatturato, la dimensione raggiunta, il numero dei dipendenti ecc.

Per questo i lavoratori della GKN hanno denunciato a gran voce la logica che ispira Melrose Industry, attuale proprietaria di GKN, fondo britannico quotato in borsa, partecipato da azionisti avvoltoi, la quintessenza del peggior mondo finanziario mondiale (per tutti: Vanguard Group e BlackRock)[3]. Da un lato, c’è il fondo di investimento, che persegue esclusivamente le dimensioni del portafoglio che gestisce, indifferente alla fabbrica, alla sua storia, ai suoi uomini e alle sue donne, dall’altra ci sono gli operai della GKN, che “conoscono la fabbrica come le loro tasche”, che l’hanno costruita, fatta funzionare, che saprebbero “far ripartire la produzione in qualsiasi momento” (sono parole loro!).

È questo il sistema perverso che viene messo sotto accusa dai lavoratori. Nelle loro parole risuona una grande e importante consapevolezza, quella dei produttori, che smaschera la retorica usata e abusata dalle classi dominanti, politiche ed economiche, del “facciamo ripartire l’economia”, del “dobbiamo attrarre investimenti”, del “rendiamo flessibile il lavoro per rendere appetibile ai grandi capitali l’investimento in Italia”.

Dalla Henkel di Lomazzo, alla Gianetti di Ceriano e la Whirpool di Napoli, l’industria italiana è stata terra di conquista di multinazionali e grandi fondi di investimento internazionali. In forza dello sblocco dei licenziamenti, la finanza speculativa non ha nessuna esitazione, quando “il business non è più redditizio”, a chiudere gli stabilimenti, inviare procedure di licenziamento collettivo, delocalizzare dove è più conveniente (per costo manodopera, legislazione, sistema fiscale, costo materie prime ecc.).

Sono questi gli imprenditori che salveranno l’economia italiana e la faranno ripartire, che meritano di essere incentivati, di essere sgravati dal peso del fisco, degli ammortizzatori sociali, che possono avvalersi di una legislazione del lavoro che legittima la precarietà e la mancanza di tutele e diritti?

Sono questi gli imprenditori che potranno beneficiare delle risorse del PNRR, che pur essendo fondi di provenienza europei, saranno, sia per la parte presa a prestito che per la parte a sovvenzione, restituiti direttamente (in quanto debito pubblico) o indirettamente (contribuendo al bilancio dell’Unione Europea) con danaro pubblico, attingendo alle tasse pagate dai contribuenti italiani? I soldi versati dai lavoratori, dai pensionati, dagli artigiani – gli unici rimasti a pagare le tasse − possono sostenere chi vuole licenziare, smembrare, smantellare le realtà produttive del nostro paese?

Insorgere, allora: questa è la grande intuizione che proviene dal miglior mondo del lavoro, che si sta ponendo come soggetto politico, che vuole essere protagonista della trasformazione dei rapporti di sfruttamento e oppressione di cui è vittima, capace di smascherare che i processi di accumulazione capitalistica non sono un dato naturale e immodificabile, come non lo sono le leggi che li governano. Forse questa volta ci sono le premesse per cominciare a scrivere una pagina storica. E a scriverla potrebbe essere il mondo del lavoro espropriato dal grande capitale.

 

[1] M.D’Eramo, Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi, Milano 2020

[2] L.Gallino, Con i soldi degli altri, pp.109-110)

[3] M.Bortolon, GKN: lavoro ostaggio del peggior capitale, Il Manifesto, 24 luglio 2021