di Andrea Bui*
Chi ha accompagnato qualcuno in questura per il permesso di soggiorno, per ottenere documenti, sa che può essere una vera e propria corsa a ostacoli. File interminabili, rimpalli di ufficio in ufficio, tempi dilatati. Esperienze comuni in molti uffici nel nostro paese, ma aggravati dalle difficoltà linguistiche e da una legislazione farraginosa, modificata ad ogni campagna elettorale, perché sono decenni che sulla pelle dei migranti si giocano le campagne elettorali in Italia. È l’immigrazione il problema del nostro paese, dicono: ci hanno raccontato che asili, case popolari e servizi sanitari non ci sono perché ci sono gli immigrati, uomini e donne di serie B che vengono fatti entrare nel paese per scroccare la nostra ricchezza o per oscuri piani di sostituzione etnica.
Per questo si cerca di rendere impossibile la vita a queste persone, così capiranno di stare “a casa loro”. Facili bersagli dati in pasto all’opinione pubblica per scaricare le responsabilità di chi ha governato questo paese per decenni. È così che si giunge agli arresti del 22 gennaio, dove una funzionaria della questura aveva organizzato un canale alternativo di ottenimento dei permessi, più veloce anche se costoso – fino a 400 euro il prezzo per sbrigare pratiche difficili, come rivelano le carte dell’indagine – per ottenere in 40 giorni un permesso che l’iter normale permette di avere anche in 9 mesi. E allora si paga, per evitare mesi di levatacce e umiliazioni agli sportelli.
Un episodio che ci racconta che tutto intorno a noi è business, anche una pratica di ufficio, anche il pezzo di carta che, ricordiamolo, per chi è straniero segna la possibilità di condurre una vita dignitosa. Sono le persone che curano gli anziani, che lavorano nei salumifici e nei cantieri edili: la stragrande maggioranza ha figli che vanno a scuola. Le reazioni dovrebbero condannare l’avidità che pare senza limiti e invece la prima reazione apparsa sui giornali è il latrato coordinato della Lega, intonato dal capo e rieseguito dai suoi sul locale, in cui si dice “chiudiamo i porti”. In poche righe, Salvini ha il tempo di sottolineare che gli indagati sono quasi tutti stranieri e fa sorridere pensare a quel “quasi”: qualche anno fa Salvini avrebbe potuto fare filotto aggiungendo che la poliziotta ha un cognome che non faceva pensare al sole delle Alpi. Ma la generosità (e la fame di voti) della dirigenza leghista (fu padana) ha spostato le frontiere della civiltà più a Sud. E adesso il nemico non sono più i terùn ma gli “extra”.
Mentre il dibattito politico rimane nel canile delle rivendicazioni leghiste, rischia di sfuggirci il dramma che trapela da quello che accade nel mondo dell’accoglienza ai migranti, ma non solo: in tutto il welfare. Se ci pensiamo, l’esigenza che ha creato il fruttuoso mercato rivelato dalle indagini è la stessa che porta a scegliere gli ospedali privati: pago per evitare di aspettare mesi per un esame in cui c’è scritto “urgenza”, pago per ottenere qualcosa che non dovrei pagare perché è un mio diritto, ma che non mi viene fornito con i tempi giusti. E allora pago, se me lo posso permettere, o mi indebito. Quando i diritti vengono derubricati a merce accade anche questo. Parliamo di qualcosa sta accadendo a tutti. All’inizio, a farne le spese sono le persone socialmente più vulnerabili, ma se invece di cercare le cause del problema diamo la colpa alle vittime, possiamo solo continuare in questa giostra del capro espiatorio, augurandoci di non finire alla gogna anche noi un giorno.
Allora perché non pensiamo al modo di tagliare le gambe a questo tipo di mercato? Perché non avere come obiettivo uffici amministrativi più efficienti? Abbiamo visto che in 40 giorni è possibile averlo questo permesso, perché la questura impiega mesi e mesi? Immaginiamo che siano i soliti problemi di carenza di organico, di sottofinanziamento, ecc. Perché non investire soldi pubblici per migliorare tutti i servizi pubblici?
Tanto questi sono stranieri e non contano nulla, per molte persone galvanizzate dalla propaganda feroce della bestia questi sono abusivi qui, “a casa nostra”… Adesso che è emerso questo episodio, lo si vuole collegare al business dell’accoglienza organizzato dai buonisti, che preferiscono pagare le vacanze agli africani piuttosto che gli asili ai “nostri”. Certo c’è un business, ed è evidente. Ed è la stessa mentalità che si sta diffondendo nei servizi sociali spolpati da privatizzazioni e austerità. Il pubblico non riesce e non vuole più gestire servizi e li cede al miglior offerente: meno costa, meglio è. Con le casse pubbliche si devono organizzare i grandi eventi, promuovere il marchio per attirare capitali. Per l’elemosina ci sono la chiesa e i filantropi, il volontariato. È vero, è anche qui che si annida il business e a volte i valori sbandierati sono parte del marketing. Ma sono state proprio le scelte di criminalizzazione della povertà e degli stranieri, le politiche di tolleranza zero, condivisi nella sostanza dai governi di centrodestra e centrosinistra (Minniti è fresco fresco) che alimentano gli affari. D’altronde pure il leghista Maroni aveva messo un balzello sui permessi di soggiorno, fino a 200 euro, anche quello dichiarato illegale dopo pochi anni, solo che non accorciava i tempi di ottenimento.
* Attivista di Potere al popolo Parma.