Sono circa 400mila, di cui un quarto precari, producono l’1% del Pil e gestiscono quasi la metà dei servizi sociali nel nostro Paese. Sono i lavoratori delle cooperative sociali, secondo i dati di Euricse del 2016. Una realtà ormai imprenditoriale a tutti gli effetti, con cui abbiamo sempre più a che fare. Eppure, si conosce poco: attorno alla cooperazione, più che altro, aleggiano miti. Dagli strali della destra xenofoba che la dipinge come pilastro del business buonista, ai ritratti dolciastri, oggi per la verità sempre meno di moda, di matrice cattolica e socialdemocratica, che la esaltano come l’avanguardia della meglio società civile italiana. “I Buoni” li ha definiti Rastello nel suo omonimo libro. Un testo prezioso, graffiante, irritante e che parla proprio di questa realtà, cercando di demistificare le leggende per afferrare un pezzo di verità. Sulla scorta del romanzo di Rastello, proverò a tracciare un quadro, senza assolutamente la pretesa di essere esaustivo: più che emettere giudizi, l’intenzione è di iniziare un percorso di riflessione collettivo su un tema, quello del welfare e dei lavoratori “del sociale”, che credo sia molto importante per capire e forse cambiare il nostro tempo. Lo slancio nobile che ha visto la nascita della cooperazione sociale è stato totalmente assorbito e ricondotto alla logica del mercato. Gli iniziatori di quel mondo non stavano cercando un nuovo impiego ma volevano impegnarsi per realizzare una trasformazione sociale e culturale.
In Emilia lo slancio è stato accompagnato dalla politica tramite le amministrazioni provinciali, comunali e regionali, che hanno costruito un intervento pubblico di concerto con le prime cooperative sociali. La costruzione di servizi di concerto con le amministrazioni dà vita a una prima biforcazione. Da un lato abbiamo la dilatazione di alcune cooperative sociali che divengono abnormi, migliaia di dipendenti e una struttura industriale. Dall’altro, piccole cooperative a gestione informale. La contiguità con la politica e con i sindacati confederali, quindi, è una costante che ha accompagnato la cooperazione sociale fin dall’inizio.
Ma, con gli anni Novanta, diventa il punto di forza di vere e proprie imprese che contribuiscono alla lenta e inesorabile disarticolazione del sistema pubblico di intervento sociale. In altre parole, le istituzioni rinunciano gradualmente a farsi carico delle necessità di cura che la società mostra: i bisogni di disabili, anziani, tossicodipendenti e di altri soggetti che subiscono una condizione di marginalità, diventano problemi da appaltare alle cooperative.
La cooperazione sociale, infatti, nasce in Italia nel momento in cui lo stato sociale entra in crisi, a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta. Le cooperative si inventano un pezzo di welfare che non esisteva e che in molte parti d’Italia le istituzioni non erano in grado di mettere in piedi. Le prime esperienze sono permeate dallo spirito anti-istituzionalizzante che portò alla chiusura dei manicomi, il protagonismo sociale che supera l’immobilismo delle burocrazie statali.
Su questi elementi, la retorica neoliberale attecchisce in modo formidabile, la stessa retorica con cui si sostiene lo smantellamento del welfare e che porta all’ascesa delle cooperative come attori economici.
Dopo 20 anni, il progressivo ritiro del pubblico dalla gestione del welfare è ormai completo e uniforme su tutto il territorio nazionale, con qualche accento regionale diverso, ma il processo è piuttosto univoco nella sostanza. Si tratta di una situazione in cui la pressione del sistema degli appalti e delle privatizzazioni
comincia a farsi sentire sulle realtà rimaste fedeli allo slancio iniziale. Il sistema realizzato si fonda su una compressione del costo del lavoro, forte flessibilità oraria, inesistenza di istituti come gli straordinari (sostituiti nella prassi dai “recuperi”). Così, i colossi della cooperazione possono fare economie di scala
ottimizzando il personale. Le piccole realtà, invece, si trovano a dover scegliere tra l’essere incorporate dai colossi o tentare di costituire nuovi grandi gruppi unendosi ad altre cooperative simili. Altrimenti, semplicemente, si chiude. In tutti i casi, il tipo di cooperativa piccola e informale è destinato a essere residuale, a scomparire.
Sembra incredibile come un movimento così importante nella nostra storia sia stato sbrigativamente congedato, dopo essere stato usato dalla politica come foglia di fico per coprire la demolizione del welfare pubblico. Il tutto senza che si provasse a difenderlo, in nessun modo. I lavoratori delle cooperative sono veri e propri “operai della cura”, definizione che si deve a un interessante articolo di Militina su Commonware dello scorso 21 settembre, e sembrano rassegnati alle pessime condizioni di lavoro cui generalmente sono sottoposti, oltre alla sempre maggiore impotenza dei servizi per cui lavorano: tirati a lucido da un marketing farsesco, sono ormai strumenti sempre più fragili e sempre meno efficaci nello
sprofondare della crisi. E in questo quadro pare impossibile costruire una mobilitazione sindacale. Perché?
Innanzitutto, gli appalti, i subappalti, i finanziamenti delle fondazioni bancarie e il sistema del mercato delle prestazioni sociali offuscano le responsabilità del licenziamento, del taglio, del mancato riconoscimento di un titolo di studio o professionale con un salario degno. Non c’è una linea di conflitto chiara, ma una lunga serie di passaggi in scatole decisionali concatenate. Con chi ci dobbiamo incazzare? A fronte di questa responsabilità offuscata ci si ritrova davanti a un ricatto per cui “Se facciamo sciopero, a pagarne le conseguenze più gravi sono le persone che curiamo e le loro famiglie. E poi tanto non serve a nulla”. Di
conseguenza, la rabbia si sfoga altrove, rimanendo ai piani bassi dell’organizzazione, quando non interiorizzata nella frustrazione quotidiana per non essere riusciti a trovare di meglio.
Eppure, proprio gli operai della cura avrebbero un’opportunità eccezionale.
Guardano il disagio negli occhi ogni giorno, nelle sue mille sfaccettature. Conoscono la solitudine anaffettiva degli ospizi, l’isolamento sociale delle persone disabili, le condizioni dei nostri ospedali, delle nostre scuole, di istituti professionali trasformati in parcheggi per disoccupati. Sono testimoni di tutti questi cambiamenti e sono chiamati a dare spesso un contributo in termini di controllo o mediazione, oltre a tanti altri aspetti. Vedono implodere le comunità: proprio mentre le necessità dilagano, si smantellano i servizi.
Perciò, non credo saranno le vertenze sindacali da sole a “risvegliare” la coscienza intorpidita e depressa degli operai della cura, ma questo sguardo obliquo su se stessi e sulla società, perché ognuno di noi farà i conti con il welfare (o la sua assenza) prima o poi, in pezzi importanti della nostra vita come la salute e l’educazione. E allora, perché non cogliere questa suggestione? La morte imminente della cooperazione sociale autentica potrebbe non essere inutile, se ci lasciasse in dote almeno un messaggio per il futuro. È un messaggio dalle potenzialità dirompenti: interrogarsi sul lavoro di cura oggi significa interrogarsi sull’ordine sociale.
Lo dico perché, secondo l’intuizione da cui muovo, lo scopo dell’operatore è di riempire un vuoto, quello lasciato da ruoli sociali ormai estinti, atrofizzati. Il lavoro di cura è la conseguenza dell’individualismo sempre più radicale, determinato da una società che ha polverizzato le relazioni. Il neoliberismo produce esclusione, consuma gli individui e li marginalizza una volta esaurite le loro funzioni di produzione, valorizzazione e consumo. Gli anziani sono un esempio lampante: corpi da rottamare in fretta, improduttivi, bisognosi, costosi. La soluzione, l’unica possibile in questo modello, è che diventi un business anche la cura di queste persone. Ma gli esempi potrebbero essere tanti, come i disabili, gli stranieri, i poveri. È un lungo elenco destinato a ingrossarsi, in termini numerici ma anche in termini di definizioni.
Il motivo per cui le cifre e le tipologie di bisogni di cura aumenteranno, sta in una contraddizione che a questo punto mi pare chiara. Il modello socio-economico attuale non permetterà di cercare risposte che poggino su un’indagine sincera delle cause del problema. Un’indagine approfondita, infatti, arriverebbe a
mettere in discussione l’ordine sociale stesso, perché è questo che partorisce la marginalità di cui parliamo.
Quindi, le possibili soluzioni si baseranno sulla terapizzazione. Sarà il paradigma della terapizzazione ad aumentarne i numeri dei soggetti “da trattare”, da una parte e, dall’altra, a indicare nuove definizioni di bisogni di pari passo con le trasformazioni della società. In questo modo si produce un circolo vizioso, in cui
le imprese che si occupano della cura cercheranno il più possibile di prolungare il periodo di terapia e mantenere le condizioni che generano la marginalità, perché il loro business morirebbe senza il bisogno (cioè “la domanda”).
Ebbene, è nel circolo vizioso così creato che, dal mio punto di vista, si gioca la soggettività politica e sociale degli operai della cura. Ed è in questa contraddizione, al cuore dell’ordine attuale, che occorre trovare la soluzione.
Andrea Bui