di Chiara Marchetti
Qualche settimana fa è rimbalzata anche sui media e sui social italiani la notizia della morte di una anziana signora di Lesbo, Maritsa Mavrapidou, scomparsa all’età di 89 anni. Se sappiamo qualcosa di lei è perché – insieme a tante altre “nonne” – era balzata agli onori delle cronache nel 2015, quando 800 mila rifugiati si erano trovati a transitare per la Grecia, centinaia di migliaia approdati solo nella piccola isola di Lesbo. Lì Maritsa non ci aveva pensato due volte: aveva spontaneamente aperto la sua casa, aveva preso in braccio e nutrito dei neonati rifugiati, non si era voltata dall’altra parte. Persone normali, normalissime, ormai al volgere della loro vita, che dall’oggi al domani si erano trovate nel mezzo di un esodo epocale. Loro, insieme alla loro isola, da cui tanti greci se ne erano già andati, lasciandola di fatto quasi spopolata. Una crisi nella crisi: quella dei rifugiati nella crisi economica di un intero paese. La solidarietà e l’empatia di queste donne (e di tantissimi altri ordinari cittadini di tutte le età) hanno fatto il giro del mondo – il giornalista Daniele Biella ne ha scritto un libro, intitolato L’isola dei giusti – e in tanti, anche gli stessi protagonisti, hanno richiamato un passato in cui avevano vissuto qualcosa di analogo al dramma di cui erano vittime i rifugiati contemporanei: «Noi abbiamo accolto i rifugiati perché anche noi discendiamo da rifugiati», aveva dichiarato in un’intervista la stessa Maritsa, riferendosi al fatto che la sua famiglia era arrivata a Lesbo dalla Turchia, quando nel 1922 ci fu un traumatico scambio di popolazione tra i due paesi.
Partiamo dall’isola di Lesbo per arrivare all’Italia e al cuore dell’Europa. Sono tantissimi i paesi europei ad avere una lunga storia di migrazioni alle spalle. L’Italia è sicuramente uno di questi. Migrazioni economiche, per fame e per lavoro, ma anche migrazioni politiche, per opposizione al regime fascista. Si potrebbe quasi dire «una Repubblica fondata sull’emigrazione», usando le parole di Toni Ricciardi, dal momento che questo fenomeno ha rappresentato un pilastro della nostra realtà sociale ed economica, oltre che della autorappresentazione della nazione in cui viviamo. Ma non siamo certamente i soli. Pensiamo all’Ungheria, uno dei paesi in cui il sentimento antimmigrati e le politiche repressive sono più aggressivi e che tuttavia potrebbe a sua volta richiamare un passato in cui «i rifugiati eravamo noi»: 200 mila ungheresi in fuga nel 1956, pari al 2% della popolazione, accolti in tanti diversi paesi europei.
Fare paralleli tra diverse situazioni storiche e sociali è sempre difficile, forse improprio. Ma di sicuro possiamo dedurre che la memoria non procede in modo lineare e prevedibile. Può suscitare empatia o creare distanza. Non sono solo i sentimenti spontanei della popolazione a cambiare, ma anche il ruolo degli attori politici che mobilitano questi sentimenti, per motivi più o meno nobili. E sono tutt’altro che irrilevanti tanti altri attori sociali, le associazioni, i gruppi di volontari più ho meno organizzati, che hanno un ruolo fondamentale nel riattivare una memoria piuttosto che un’altra, nel gettare ponti o nel costruire muri.
Il ciclo di incontri Migranti di ieri, migranti di oggi, promosso da Ciac e dal Centro studi movimenti, va verso la sua conclusione con due incontri che hanno al centro proprio il tema della percezione sociale nei confronti degli stranieri e dei migranti, in dialogo con la percezione di noi stessi come paese di emigrazione. Una ricostruzione storica che non può che partire dalle migrazioni italiane per arrivare alla situazione attuale, in cui il nostro paese si percepisce come paese di immigrazione (per alcuni problematicamente oggetto di un’“invasione”, più realisticamente un paese multiculturale maturo, con presenze stabili e di lungo periodo), dove la relazione tra queste due diverse percezioni (e realtà) è tutt’altro che scontata e definita una volta per tutti. Giovedì 14 marzo alle 18.00 presso l’Auditorium Casa Matteo (Centro studi movimenti, Via Saragat 33/a – Parma) il già citato storico Toni Ricciardi dell’Università di Ginevra, nella sua relazione dal titolo Dall’odio all’accettazione: storie di migrazione italiana nel secondo dopoguerra, partirà proprio dalla nostra emigrazione e dal modo in cui eravamo percepiti dai governi e dalle popolazioni dei paesi in cui si insediavamo. Una storia che conosce bene, oltre che come studioso, anche per esperienza familiare: madre operaia, padre muratore, è arrivato in Svizzera, a Baar (Canton Zugo), nel 1978, quando aveva solo 8 mesi ed era uno dei tanti bambini clandestini. Il filo della storia si svolge poi fino al tempo più recente, attraverso la ricostruzione che offrirà lo storico Michele Colucci, del Consiglio nazionale delle ricerche, con il suo intervento L’immigrazione straniera nella società italiana: un percorso storico, che si terrà lunedì 25 marzo alle 18.00 presso la Casa Madre dei Saveriani in viale San Martino 8. Il punto di arrivo dell’intero ciclo di incontri, e l’occasione per ripercorrere l’evoluzione del governo dell’immigrazione straniera in Italia: una storia fatta di sanatorie, di marginalizzazione delle politiche di integrazione, di precarizzazione ed eccezionalità. Della quale avere piena consapevolezza per costruire un futuro diverso, in cui parole come diritti, solidarietà ed accoglienza possano rappresentare ancora le fondamenta su cui costruire politiche di cittadinanza e inclusione.