La Redazione
Ci piacerebbe che Collecchio fosse associata alla sua storia ricca di testimonianze (come la Pieve di San Prospero), ai due parchi regionali che la circondano, alla bellissima Villa Soragna o alla Festa Multiculturale che ogni anno si svolge al Parco Nevicati. Invece, in tutta Italia il nome di questo comune, tra i più significativi della provincia, è legato automaticamente alla Parmalat, al vecchio patron Calisto Tanzi e al più grande crack finanziario nazionale. E dopo mesi di silenzio, Parmalat è tornata sulla bocca degli operatori, perché la sua proprietà ha deciso di lanciare un Opa (Offerta Pubblica di Acquisto) sul mercato azionario, con l’intento di accaparrarsi le ultime azioni della società ancora rimaste in mano ai piccoli azionisti dopo il crollo tanziano. Perché?
Con ordine: ora il gruppo Parmalat è saldamente nelle mani della multinazionale francese Lactalis che detiene oltre il 96% delle azioni. È tra i leader mondiali nella produzione e distribuzione di latte, dei suoi derivati (yogurt, condimenti a base di panna, dessert e formaggi) e di bevande a base di frutta. È un’azienda che crea profitti: nel 2017 ha generato ricavi per oltre 6,6 miliardi di euro, di cui quasi il 60% nelle Americhe (39% in America del Nord e 20% in America Latina). L’obiettivo della società è ormai definito: attivare la procedura per il delisting del titolo dalla Borsa nazionale.
Il delisting (letteralmente: uscita dal listino della borsa) non è altro che un termine per definire la decisione di Lactalis di liberarsi dal mercato azionario italiano, scrollarsi di dosso i piccoli azionisti rimasti, per aver poi mano libera sulle decisioni che riguarderanno il futuro dell’azienda, senza i vincoli impostigli dal risanatore post fallimento, Enrico Bondi. Questa volontà non è stata accolta con favore dai sindacati che sono subito corsi a suonare il campanello d’allarme. Per i partiti, invece, è stata l’occasione per inscenare l’ennesimo comizio elettorale davanti alla fabbrica. I lavoratori di conseguenza hanno cominciato a sentire puzza di bruciato.
L’accusa sindacale alla multinazionale francese è quella di peccare di poca italianità. Ce lo dice ad esempio Il segretario della Flai-Cgil Mauro Macchiesi. «Stando a quanto comunicato da Lactalis – dice Macchiesi − non esisterà più una funzione corporate italiana, non esisterà più un management italiano. Come sindacato siamo preoccupati per i possibili impatti negativi sull’occupazione e anche perché questa riorganizzazione può mettere a rischio un intero modello del nostro settore agro-alimentare, gestito finora dal management italiano di Parmalat, che vuole dire acquisto di latte italiano, cura e sensibilità italiana nella ricerca e nell’innovazione dei prodotti». Come si può vedere il nazionalismo è ormai entrato a far parte del lessico di ogni commento politico o sindacale. Prendiamone atto: il “prima gli italiani” del Matteo nazionale ha preso il posto del “ce l’ho duro” di Bossi, lasciando inalterati i termini dell’equazione, ma regalandoci in più le stesse argomentazioni che usava il vecchio Mussolini quando chiedeva di consumare italiano, comprare i prodotti italiani e consegnare alla patria le fedi nunziali.
Ma perché Lactalis vuole uscire dal mercato borsistico italiano? Attraverso il mercato azionario, si sa, le imprese si finanziano. Possono trovare disponibilità di risorse a costi inferiori rispetto, ad esempio, ai prestiti bancari. Un’azienda in crescita trova quasi sempre il suo sbocco nell’ingresso nel mercato azionario per trovare i finanziamenti necessari alla sua espansione. Invece, Lactalis non ne vuole più sapere. Vuole uscire dal listino. Le motivazioni possono essere tante. E noi, per ora, possiamo solo fare delle supposizioni. Si vocifera, ad esempio, che l’acquisizione delle quote rimanenti in mano ai piccoli azionisti e l’uscita dal listino, serva a Lactalis per aver mano libera nel processo di riorganizzazione del gruppo che potrebbe prevedere lo spezzettamento dell’azienda e la sua vendita per singole parti, cosa che permetterebbe di realizzare elevati profitti. Altre voci invece sembrano indirizzare la spiegazione verso un tesoretto, si parla di 1,8 miliardi di euro, che l’ex amministratore unico Enrico Bondi aveva chiesto alla banca americana Citi a titolo di risarcimento per il crack di Tanzi. Soldi che diventerebbero di appannaggio esclusivo di Lactalis e permetterebbero di fronteggiare gli esborsi sostenuti per ottenere il controllo completo di Parmalat.
Il mondo del capitale diventa sempre più fumoso man mano che si stacca dalla realtà produttiva e si dirige verso le vette della finanza. Bisognerà stare in allerta e fare molta attenzione. Abbiamo numerosi esempi di fabbriche che a prima vista risultavano floride e ricche di prospettive ma che poi nel giro di poco tempo hanno chiuso i battenti lasciando sul lastrico decine di lavoratori. Indipendentemente dal fatto che la proprietà sia estera o italiana. Provate a chiedere agli operai della Pernigotti. Certo, si spera che alla Parmalat questo non debba succedere mai, ma se così non fosse è meglio essere pronti e determinati. Nessun bullone, attrezzatura o macchinario dovrà uscire dalla fabbrica. È tutto lavoro accumulato che appartiene ai lavoratori. È valore prodotto da loro e condensato negli anni, usato per estorcere la ricchezza che permette al management e ai proprietari di fare la bella vita e agli operai di consumarsi giorno per giorno. Non dobbiamo permettere a nessuno di portarlo altrove per approfittare della miseria dei lavoratori di altri paesi.