Perché al prossimo referendum voterò Sì

Francesco Antuofermo

«Tutti gli avvenimenti sono concatenati nel migliore dei mondi possibili, ma bisogna coltivare il nostro giardino » Voltaire

Il prossimo 8/9 giugno si voterà per i referendum: quattro quesiti riguardano alcune norme sul lavoro, approvate dall’intraprendente Matteo Renzi, quando alla guida del PD, per compiacere la classe padronale, promosse il Jobs act; Il quinto referendum invece intende dimezzare da 10 a 5 anni i tempi di residenza legale in Italia utili per la richiesta di concessione della cittadinanza italiana. Accantoniamo per ora questo ultimo quesito, per il quale votare Sì dovrebbe essere un atto dovuto di civiltà e di progresso e concentriamo il ragionamento sugli altri quattro.

Il primo quesito dei referendum punta all’abrogazione della normativa che impedisce il reintegro dei lavoratori anche nel caso in cui il giudice dichiari ingiusta e infondata l’interruzione del rapporto di lavoro. Il secondo impone, in caso di licenziamento illegittimo nelle piccole imprese, un tetto al risarcimento che non può superare le sei mensilità anche quando il giudice reputi l’interruzione del contratto di lavoro infondato. Il terzo quesito punta a porre un freno all’uso dei contratti a termine, mentre il quarto vuole abolire le norme che garantiscono all’impresa appaltante l’impunità in caso di incidente sul lavoro. Vuole, cioè, introdurre il principio che se in un cantiere accade un infortunio allora di questo devono assumersi la responsabilità sia l’azienda committente che l’azienda subappaltatrice.

Le domande dei referendum sulle quali siamo portati alle urne, non sono quesiti di scarsa importanza: abrogare queste norme sul lavoro rappresenterebbe una sventagliata di freschezza che andrebbe ad incidere direttamente sul braccio di ferro secolare tra lavoratori dipendenti e i vampiri che si alimentano del loro tempo. La loro abrogazione sarebbe sicuramente un piccolo successo, un passo necessario per uscire dall’angolo dopo aver preso in questi anni una caterva di pugni in faccia. Ma questo non esclude però anche altre considerazioni.

La principale promotrice dei referendum è la CGIL, con il suo segretario Maurizio Landini che ne ha assunto di fatto il ruolo di portavoce. Dopo un lungo periodo di silenzio, nonostante tre anni di un governo tra i più impresentabili nella storia dal dopoguerra, la CGIL si è fatta paladina della tornata referendaria. Landini lo conosciamo. È un personaggio caratterizzante del panorama sindacale e politico italiano. Ha guidato la FIOM, il sindacato dei metalmeccanici con espressioni a volte dure, colorite e decise. Ma da quando è diventato segretario della CGIL la moderazione e la pragmaticità hanno preso il sopravvento. Da allora la cautela è diventata il tratto distintivo della sua azione e neanche il decreto sicurezza, chiaramente destinato a bloccare le proteste operaie più radicali, lo ha risvegliato dal sonnolento torpore in cui è precipitato.

Con i referendum invece improvvisamente è diventato di nuovo protagonista. È comprensibile: lui comunque vada il voto del 8/9 giugno, uscirà dalla contesa come vincitore. Infatti, se si raggiungerà il quorum, ma la vedo dura, Landini sarà portato in trionfo. Se invece la quota necessaria a validare la consultazione non si raggiungerà, potrà comunque dire che la maggioranza di chi ha votato è con lui; che è rimasto l’unico baluardo contro le destre e che ha provato a sconfiggerle facendo tutto quello che era in suo potere. Non sarà certo colpa sua se gli operai, purtroppo, non hanno la maggioranza politica in questo paese. Potrebbe addirittura rivendicare un posto di prestigio nelle future competizioni elettorali all’interno del partito democratico. Non sarebbe il primo segretario sindacale a trasmigrare nel partito di riferimento.

In realtà Landini dovrebbe sentirsi in grave colpa. Dovrebbe sapere, lui si esperto e navigato sindacalista, che nel conflitto tra la classe dei padroni e quella dei lavoratori, scegliere la via delle urne è sempre molto rischioso. Sono lì a dimostrarlo le tre consultazioni referendarie svolte in passato sui temi sindacali. Soprattutto la sconfitta nel 1985, sul quesito che abrogava la norma che tagliava gli scatti della scala mobile. Su questo terreno aimè, lo scontro è impari rispetto alla forza che mettono in campo tutte le altre classi, siano esse proprietari di piccole e grandi aziende, o della miriade di padroncini che affidano la loro rappresentanza al governo Meloni. I padroni possono attingere a risorse praticamente illimitate, senza contare l’appoggio di gran parte dell’informazione di regime che hanno a libro paga o comunque sempre pronta a piegarsi ai loro desiderata.

Dall’altro lato della barricata invece, gli strumenti a disposizione delle classi più povere sono troppo risicati. Esse sono oltretutto schiacciate da una massa di persone che hanno interessi opposti in quanto si nutrono proprio dei proventi ricavati dalla valorizzazione della ricchezza estorta ai lavoratori.

Forse Landini lo ha dimenticato: nella storia, lo scontro tra le classi che si occupano della produzione non si è mai risolto alle urne. Ogni miglioramento delle condizioni di lavoro è stato ottenuto grazie alla mobilitazione, agli scontri, agli scioperi nelle fabbriche. Se Landini e le forze che lo accompagnano in questa avventura elettorale avessero davvero voluto cambiare le norme imposte dal job act, avrebbero potuto attivare la protesta di chi quelle misure le subisce tutti i giorni sulla propria pelle. È su questo terreno infatti che avrebbero potuto davvero esprimere tutta la loro forza.

Se poi, malauguratamente dovesse mancare il quorum, la classe dei capitalisti potrà incassare un altro successo, “entrerà in piena orgia”, e con lei tutta la pletora degli scalzacani a libro paga, a cominciare proprio da quel Matteo Renzi che ha dato il via alla liberalizzazione dei licenziamenti. Si rafforzerà allora il pensiero stantio che capitale e lavoro in fondo sono sulla stessa barca e che è meglio che i lavoratori si rassegnino e si mettano a remare nella stessa direzione.

Comunque ormai siamo in ballo. La consultazione è imminente e non possiamo fare altro che andare alle urne e tentare di vincerla. Sembra che per raggiungere il quorum occorra che si rechino alle urne 23 milioni di persone. Un’impresa titanica considerando la disaffezione cronica verso la politica generata da decenni di misure a senso unico. Secondo i sondaggi mancherebbero all’appello almeno dodici milioni di elettori. La partita quindi si gioca tutta nella metacampo degli astensionisti. E tra questi, innumerevoli sono proprio quelli che dall’abolizione di queste misure ne trarrebbero solo che vantaggio. Sono loro che devono essere spinti verso la cabina elettorale. Del resto non devono fare un grande sforzo: si tratta solo di abbattere quel muro invisibile di rassegnazione che separa la loro abitazione dal seggio. Possono provare almeno per un giorno a togliersi la catena che li lega al carro dei padroni. A pensare finalmente con la propria testa nonostante la strage quotidiana nelle fabbriche, i bassi salari e un governo che invita a stare a casa a rimbambirsi davanti alla tv.

Come dice Voltaire se vogliamo ottenere le rose “dobbiamo coltivare il nostro giardino”. Per cui, almeno questa volta proviamoci: prendiamo la vanga e andiamo controcorrente. Rechiamoci a votare e votiamo cinque Sì.