di Cristina Quintavalla
A fine maggio il Consiglio dei ministri ha licenziato il decreto legge n. 69, eufemisticamente definito come Decreto Salva Casa, già in vigore. La norma come è noto reca “disposizioni urgenti in materia di semplificazione edilizia e urbanistica”, perché, a tutto dire del ministro Salvini, avrebbe la funzione di sbloccare un mercato, quello immobiliare, stagnante, caratterizzato da scarse o nulle attività di compra-vendita.
Siamo avvezzi da lungo tempo all’uso di parole truccate da parte del ceto politico e dei giornalisti mainstream: democrazia, libertà, diritti – e chi più ne ha ne metta – sono significanti vuoti, che suonano bene, evocano belle speranze, ma designano in genere il loro contrario. Nel novero di questo vocabolario da impostori fa il suo ingresso la parola casa, ancor meglio salva-casa.
Chi fosse indotto a pensare che questo governo sedicente populista e para-fascista, intendesse porre rimedio all’emergenza casa, che ha assunto connotati drammatici per le categorie sociali più deboli, dovrà ravvedersi. Nulla di tutto questo.
Salvare la casa in realtà significa in primo luogo salvare gli abusi edilizi, in particolare di quegli immobili, la cui compravendita è bloccata da irregolarità e difformità rispetto al titolo edilizio, tali da non consentirne vendita.
Qui siamo oltre la sanatoria. Siamo alla legalizzazione dell’abuso edilizio, già di per sé impattante per le ricadute sul territorio.
Questo condono degli abusi edilizi sarebbe giustificato dal fatto che quelle abitazioni non possono essere vendute, pur a fronte del grande fabbisogno abitativo.
Una foglia di fico. L’ipocrisia sta tutta nel mistificare che in Italia, a seguito di un’espansione periferica dissennata, cresciuta del 22%, con tutte le conseguenze legate alla cementificazione e alla trasformazione del valore d’uso del territorio, le abitazioni non occupate, seppur conformi alle norme, sono già nell’ordine del 30%. Case costruite e non occupate, non vendute e non affittate. Lasciate lì a gonfiare i profitti dei grandi costruttori che hanno investito capitali, che sono stati incredibilmente remunerati attraverso, che so, cambi di destinazione d’uso di terreni, (che da agricoli sono diventati edificabili, che da industriali sono diventati residenziali, che da residenziali sono diventati commerciali e direzionali), che si sono accaparrati i terreni nelle aree intermedie libere, gratificate automaticamente di un maggior valore. A costoro non serve vendere, il loro investimento ha già prodotto plus-valenze.
Il fabbisogno abitativo è quello dei migranti, degli studenti, degli sfrattati, di coloro che non possono pagare affitti troppo alti rispetto al loro reddito, che non riescono a pagare le rate del mutuo, innalzatesi oltre misura a seguito dell’incremento del costo del danaro. Per tutti costoro, che esistano milioni di vani invenduti, con o senza irregolarità, è completamente indifferente, essendo fuori dalla loro portata. L’impoverimento assoluto e quello relativo sono cresciuti esponenzialmente, come il disagio abitativo.
L’intervento pubblico, semmai, dello stato o degli Enti pubblici, dovrebbe andare nella direzione opposta: accrescere l’iniziativa pubblica in edilizia popolare, disincentivare lo sfitto, attraverso decreti ingiuntivi o sostitutivi di una proprietà inadempiente, stabilire norme edilizie stringenti, e soprattutto scelte urbanistiche che salvaguardino il territorio dalla speculazione e dunque calmierino con destinazioni d’uso oculate i terreni, ostacolino l’aumento artificiale del valore delle aree, nonché il mercato folle degli affitti e delle abitazioni.
In secondo luogo il decreto salva- casa è in realtà salva-investimenti immobiliari.
Tra le disposizioni principali infatti il vero gioiello risiede nella semplificazione accordata al cambio di destinazione d’uso delle singole unità immobiliari. Hai chiesto di fare un pollaio e invece potrai erigere un immobile. Potrai cambiare altezze, distacchi, cubature, superfici coperte, muri interni ed esterni, ecc. a tua discrezione. Certo, pur nei limiti del 2% se le tue unità immobiliari hanno una superficie utile superiore ai 500 mq(!!!), del 3% se l’unità abitativa è compresa tra i 300 ed i 500 mq(!!!), del 4% se è tra i 100 ed i 300 mq, del 5% se inferiore ai 100 mq.
Ma abbiamo presente cosa può significare un’unità abitativa “superiore ai 500 mq”?
Tutto ciò non costituirà più un grave gravissimo abuso edilizio.
Per dare una verniciatura di legalità a questo saccheggio del territorio ad opera della speculazione, viene introdotto lo strumento del silenzio-assenso, vale a dire che se entro i termini previsti l’Amministrazione Comunale non risponderà nel merito del cambio di destinazione d’uso, esso sarà automaticamente acquisito. Ora, come tutti sanno i tempi degli Uffici tecnici comunali, sempre più a corto di personale, sono più lunghi di quelli pretesi dagli investitori immobiliari, nutriti dall’alta finanza, che devono realizzare subito la remunerazione dei capitali investiti, attraverso la valorizzazione selvaggia della rendita.
Con la scusa di voler decongestionare gli uffici tecnici comunali, sepolti da migliaia di pratiche, viene consentito di aggirare le norme. Aspetto, questo gravissimo, se si considera che l’assalto speculativo al territorio può essere fermato o quantomeno sottodimensionato solo attraverso il controllo pubblico, La pianificazione urbanistica ed il controllo sull’attività edilizia privata ad opera dell’istituzione pubblica sono lo strumento attraverso il quale la città può essere pubblica, dei cittadini, delle donne, dei bambini, degli anziani, dei migranti, dei giovani, insomma di tutti coloro che ne possono e ne devono fruire, pur non avendone la proprietà privata.
Le amministrazioni pubbliche a questo obiettivo dovrebbero indirizzare le loro energie, anziché profonderle nell’attrarre capitali da convertire nella speculazione immobiliare, che sta diventando oggi uno dei surrogati della crisi produttiva vigente.
Il diritto alla casa è dunque il diritto alla città, preminente interesse pubblico, in quanto è lo spazio della dimora umana collettiva, che solo l’istituzione pubblica può salvaguardare attraverso la sua stretta attività di pianificazione e di controllo.