di Annamaria De Tuglie e Serena Menozzi*
Per Meena Kumari abbiamo fatto rumore. Per Meena Kumari abbiamo urlato. Per Meena Kumari non siamo state zitte. Per Meena Kumari ci siamo strette e stretti in una piazza una sera gelida di fine novembre. Meena Kumari, uccisa brutalmente dal marito il 28 novembre a Salsomaggiore, è la vittima n. 106 di femminicidio nel nostro paese dall’inizio dell’anno.
Se toccano una rispondiamo tutte: non appena la tragica notizia dell’assassinio di Meena Kumari ha iniziato a circolare, mentre angoscia e rabbia irrompevano – ancora una volta – nelle nostre giornate, crescevano la necessità e l’urgenza di mobilitarsi.
Così, dal basso, dall’esigenza di cittadine e cittadini di non restare in silenzio, dal desiderio delle attiviste della Casa delle donne e del Centro Antiviolenza di presidiare con i propri corpi lo spazio pubblico e farne luogo di presa di parola e lotta collettiva alla violenza sistemica di genere, oltre 400 persone hanno preso parte al presidio del 30 novembre a Salsomaggiore, cui hanno aderito le istituzioni e tantissime associazioni del territorio[1].
Perché la risposta non può che essere pubblica e collettiva, non può che essere rumorosa, non può che essere arrabbiata e determinata. E se questa rabbia viene canalizzata in un linguaggio con cui possiamo capirci, allora la presa di parola diventa spontanea e da più parti, come è successo in piazza Berzieri, superando il rischio di una narrazione solo emotiva e trasformando invece il dolore privato e silenzioso in un fatto politico e verbalizzato a più voci.
Perché, si è detto, la violenza maschile e i femminicidi non sono un fatto di cronaca nera di matrice passionale, ma un fenomeno strutturale che ha un carattere sistemico e che si colloca nella normalità nei rapporti e nei ruoli di coppia, tra le mura domestiche. È un fenomeno che ha le radici nella millenaria cultura patriarcale, in quel regime di subordinazione con cui sono organizzate la società, l’economia e quindi la politica, le relazioni e la vita privata. Sono l’esercizio di un potere maschile per mano di padri, mariti, ex mariti, fidanzati, ex fidanzati e amanti, in un contesto gerarchico che all’interno della relazione impone alla donna il rispetto dei ruoli tradizionali di cura (la casa, il nutrimento, i figli, gli anziani) e dei suoi doveri di madre e moglie.
E il quadro si è fatto più chiaro quando, dalle parole di donne e anche uomini che avanzavano spontaneamente verso il microfono aperto, si è ribadito il fatto che la società è intrisa di sessismo, cioè di quell’insieme di idee, stereotipi e pregiudizi, pratiche e luoghi comuni, che legittimano la gerarchia e la disuguaglianza fra i sessi, perpetuando di fatto una sottrazione della libertà della donna e della parità di decisione nelle relazioni. Si è parlato di quel microclima di violenze infinitesimali non fisiche, non facilmente raccontabili, che portano spesso la donna ad accettare questa posizione di ignoranza e inferiorità, presunte e imposte, insieme ad una serie di compromessi, al limite della propria sopportabilità, nonostante tutto ciò sia soffocante, umiliante, svalorizzante e doloroso.
L’uomo violento non è un folle o un malato di mente, è un uomo che si sente minacciato nella sua posizione di autorità e supremazia quando vede manifestarsi in modo imprevisto un atto di libertà che possa rovesciare il modello patriarcale in cui è vissuto. L’uomo diventa violento quando si prospetta una separazione, stupra davanti a un rifiuto alle sue richieste sessuali, arriva ad uccidere se non ha il controllo della donna con cui ha o ha avuto una relazione. È il figlio sano del patriarcato. Sono le parole di Elena Cecchettin e vengono dette, forte o timidamente, ma comunque limpide, anche in questa piazza, da donne e da uomini, rimbalzando, amplificandosi, sugli striscioni “Ci vogliamo vive, libere, in pace”, “Se toccano una, rispondiamo tutte”, “La libertà delle donne libera tutti”.
Ma cosa serve per provocare un cambiamento? La piazza se lo chiede e le risposte arrivano, ancora una volta in modo orizzontale, da più parti, senza pulpiti e senza retorica.
Serve una rivoluzione culturale che metta in discussione l’idea della donna come proprietà, come da principio fondante del sistema capitalista, quello che regola l’economia intera ed entra anche nella sfera privata con la sua carica mercificatrice e distruttrice, lasciando passare per normale il concetto di totale appartenenza di una persona alla persona amata e il suo totale annullamento, blindando le parti nel teatro di una visione maschilista in cui la donna è soggetta all’arbitrio del possessore. L’uomo violento ama la donna, che è di sua proprietà, la picchia e può arrivare ad ucciderla se lei decide di interrompere una relazione. È in questo scenario culturale che va interpretato il fenomeno del femminicidio.
Serve mettere in discussione i privilegi degli uomini e la mascolinità tossica che ne può derivare, ed ogni uomo è richiamato alle proprie responsabilità se non fa niente per smantellare questa cultura che li privilegia. Non servono pene più severe, non servono misure securitarie, serve attivare percorsi di educazione sessuale e affettiva capillare già nelle scuole primarie, non basta istituire 30 ore su base volontaria a partire dai 16 anni, come ha proposto il ministro Valditara. Servono percorsi di formazione nel mondo della comunicazione e nei luoghi di lavoro che parlino di linguaggio sessuato e razzista, di violenza e di molestie a sfondo sessuale, contro le donne e contro le persone LGBT*QUIA+.
E servono meccanismi di denuncia efficaci e sistemi di protezione effettivi, accessibili, duraturi. Le campagne di comunicazione delle forze dell’ordine che invitano le donne a denunciare situazioni di violenza non mancano, ma cosa accade quando una denuncia viene rispedita al mittente? quando il vissuto narrato viene minimizzato, svalutato e sottovalutato? Quando all’angoscia della violenza subita si aggiunge la frustrazione di non essere credute, la paura di non essere protette, la vergogna per aver – alla fine – rinunciato a denunciare? Serve, infine, incrementare i finanziamenti ai centri antiviolenza che l’attuale governo ha invece ridotto del 70%, come anche serve incrementare la formazione su più fronti di quelle figure professionali, educatori, avvocati, operatori sanitari, insegnanti, forze dell’ordine, affinché una donna che subisce violenze trovi supporto in un contesto in cui venga innanzitutto creduta.
Tutte queste riflessioni sono emerse in un paio di ore intense, nell’alternarsi spontaneo delle voci di una comunità che già per il fatto di essere lì ha esercitato una prima assunzione di responsabilità collettiva, partendo dal riconoscere che la violenza si annida e prolifera anche nell’indifferenza, nella solitudine, nell’individualismo imperante.
Non conosciamo le storie delle persone che erano in piazza con noi, né in che relazione fossero con Meena, forse semplicemente l’hanno sentita essere una “sorella”. Non sappiamo in quante erano lì per se stesse o per una familiare o un’amica, se hanno mai dovuto rivolgersi ad un centro antiviolenza, se si erano mai imbattute fino a quella sera in parole quali patriarcato, sessismo o violenza di genere, se hanno mai avuto occasione o necessità di confrontarsi in percorsi di consapevolezza femminista più o meno complessi, se si sono mai interrogate sulle istanze che il femminismo porta avanti da decenni, ma sappiamo che sono rimaste lì fino alla fine del presidio, stringendosi sempre più numerose dietro gli striscioni, come agganciate a questa o quella parola che ha dato finalmente un nome a quel subìto proprio o altrui, finora percepito inaccettabile solo intimamente e ora invece riconoscibile come tale nelle parole degli altri.
È così che, a sigillo di un momento importante, il presidio del 30 novembre ci ha consegnato una nuova consapevolezza: tanta partecipazione è il segno manifesto che la questione riguarda tutte, tutti e tutt3. Da qui, con la forza iniettiva e induttiva che la collettività sa dare nella direzione di un cambiamento necessario, non si torna più indietro.
* Attiviste della Casa delle donne Parma
[1] Al presidio hanno aderito: Consulta del Volontariato di Salsomaggiore, Ciac onlus, ANPI Sezione Laura e Lina Polizzi di Parma, Tuttimondi, W4W Parma, Donneinnero Parma, Comunità dei Musei e del Patrimonio Immateriale di Parma e Provincia, Conferenza donne democratiche di Parma, Il Coro dei Malfattori, L’Ottavo Colore, La Paz Antiracist Football Club, Confesercenti Salsomaggiore, Coworking Salsomaggiore, Spiegamelo! Festival della divulgazione, Circolo culturale Grazia Deledda di Parma, Associazione il Taun, Cooperativa Emc2, Associazione Jambo.