di Milo Adami
Nella ricetta dei tortelli di Parma non può mancare la noce moscata, ma quale storia si nasconde dietro questa piccola spezia? Il nuovo libro di Amitav Ghosh (La maledizione della noce moscata, Neri Pozza 2022) nasce da una apparente semplice domanda, per condurci ad una originale riflessione sul nesso che esiste tra i cambiamenti climatici e l’atteggiamento estrattivo che lo alimenta, ovvero quell’attitudine colonizzante propria del capitalismo globale.
La domanda dello scrittore, giornalista e antropologo indiano ci riporta al 1621, quando nell’arcipelago delle isole Banda in Indonesia, gli Olandesi vollero fare della noce moscata (spezia nelle comunità locali al centro di un’economia di scambi secolari) il loro unico monopolio, da qui operarono un vero e proprio genocidio uccidendo, segregando e riducendo in schiavitù le popolazioni indigene che si opponevano a questa imposta supremazia. Quando poi la domanda della noce moscata anni dopo crollò, gli Olandesi abbatterono tutte le foreste del “sacro” albero che la produceva, lasciando del loro
passaggio solo traumi e macerie.
In una documentata e limpida prospettiva, quasi foucaultiana, Amitav Ghosh ipotizza che l’attitudine estrattiva che oggi governa le logiche commerciali di tutto il mondo, che brucia e consuma risorse fino ad esaurirle, che sfrutta tutto e tutti pur di soddisfare il successo di pochi (senza interrogarsi sulle conseguenze del proprio agire), sia nelle violenze del colonialismo che trova le proprie origini. È qui che prese corpo quella visione monopolista, meccanicistica della Terra quale bacino di risorse infinito da conquistare, riducendo in schiavitù altri popoli “minori” o “barbari”. Per un manipolo di uomini facoltosi e istruiti, la Natura altro non fu, o forse è o è sempre stata, “un deposito inerte di risorse che, per essere valorizzato, doveva essere espropriato” (p.45).
Da dove proviene questa pericolosa brama distruttiva dell’essere umano? La sua naturale evoluzione non avrebbe dovuto condurlo – si chiede Ghosh – alla consapevolezza di essere una parte del tutto, in armonia con le risorse della terra, esattamente come vivevano quelle popolazioni autoctone che i conquistatori schernivano come “selvagge”? L’evoluzione finì per essere concepita come “elevazione dell’essere umano al di sopra di tutti gli esseri viventi, umani e non umani” (p.94). Questo prevaricare, questo tendere verso l’alto, verso la crescita infinita, verso il più dei record, verso il carrierismo senza limiti, dove il tempo del lavoro consuma ogni altra forma di vita, dove avere di più è essere di più, dove l’interesse privato soffoca quello pubblico, dove il profitto di pochi oscura il disagio di molti, sono ancora fortemente iscritti nella nostra cultura.
Nel libro di Ghosh si parla dell’incontenibile eccesso “che si nasconde al cuore della visione del mondo-come-risorsa” (p.85), talmente accecante da spronare le violenze colonizzatrici verso “omnicidi” nutriti dal solo desiderio di distruggere ogni cosa. Il conquistatore si fa strada, stana, distrugge, assoggetta popolazioni indigene ai propri ideali e se incontra rifiuti, uccide. E quando ha concluso la sua conquista? “L’oggetto conquistato dà l’impressione di essere passivo e inerte. Si è arreso, perciò non ha più misteri; la sfida che un tempo portava all’immaginazione del conquistatore è esaurita” (p.87). Esattamente come chi desidera e compra una merce, una volta posseduta, la abbandona per la prossima da avere; esattamente come chi raggiunto un’obiettivo della propria carriera “alza l’asticella” (espressione tremenda) verso nuovi traguardi. Sempre di più, sempre più in alto, oltre ogni limite.
Il libro di Ghosh ha il merito di formare o illuminare una consapevolezza, ovvero che al cuore della crisi climatica ci sono “problemi geopolitici, e squilibri di potere, ereditati dall’epoca coloniale – questioni che non si possono semplicemente ignorare” (p.178); che questa corsa inumana è figlia di una cultura violenta della conquista e di un pensiero unico pericoloso e dominante proprio del capitalismo.
Pensiamo ad esempio ai nostri beni culturali, ai monumenti, ai luoghi pubblici, quale valore hanno per la comunità? Il loro complesso significato (o pubblico uso) non viene forse impoverito da una visione colonizzante che ne riesce a pensare solo uno di senso: quello dello sfruttamento intensivo per fini commerciali e turistici? Pensiamo al suolo, alla terra, quale valore culturale ancora incarnano? Non è forse vero che la vita contadina è sempre stata denigrata in questo paese, al punto da portare generazioni di contadine e contadini a vergognarsi del proprio destino, abbandonando campagne, borghi, in cerca di una fortuna di città? Quale città poi? Oggi sistemi in crisi (lavorativa, energetica, sociale) dove le differenze tra un’élite benestante e una massa di precari sottopagati e poveri indistinti, si accentuano sempre di più. Il suolo, la terra, perde i suoi valori, sterile, vuota, piatta, meglio consumarla con poli logistici, capannoni, centri commerciali, autostrade e bretelle per aumentare l’illusione che questa sia la via che chiamano “moderna”. Così come i coloni pensavano che la terra fosse “selvaggia”, “primordiale”, “vuota perché non era né coltivata, né suddivisa in proprietà” (p.73), oggi chi si oppone a questa distorta idea di progresso viene ridicolizzato, emarginato come “Illuso passatista”.
Ghosh ha una speranza, che presto riusciremo a riscoprire un’idea di Terra complessa, quella che lo scienziato britannico James Lovelock chiamava “Gaia”, ovvero, evocando gli echi dell’animismo e del vitalismo (di cui tra l’altro la nostra cultura contadina, montana e popolare erano ricche), l’idea che l’essere umano non sia il solo ad essere dotato di un’anima e che la Terra non sia una risorsa infinita a sua completa e assoluta disposizione. Una visione per inciso che venne perfettamente incarnata e interpretata dal Francescanesimo che non vedeva nella proprietà un obiettivo, né un diritto, né nell’avere una conquista, ma nel ricevere, dare e usare (usus pauper), nel rispetto di ogni forma di vita, un equilibrio.
Ecco in definitiva il merito di Ghosh, aver fatto chiarezza su come si sia formato un pensiero unico in grado di determinare l’andamento di un mondo sempre più esaurito, meccanizzato ed inquinato. Idea di sviluppo che non è solo nutrita da chi è ai vertici delle scelte economiche e politiche, ma profondamente iscritta nei nostri stili e modelli di vita, radicata nel nostro pensiero e nelle nostre azioni: è ancora la stessa immutata attitudine colonizzante che brucia suolo, terra, risorse, economie, vite, fino all’ultima noce moscata.
La maledizione della noce moscata riaccende quella capacità che per nostra pigrizia o disabitudine (o mancanza di formazione, pensando alla scuola) siamo soliti abbandonare fin dalla giovane età, ovvero il desiderio, l’abitudine, la fatica di porsi domande, approfondendo quel che si nasconde dietro le apparenze. Pensare in modo complesso e interconnesso, armonico, sembra essere l’unico rimedio per difendersi e non essere risucchiati dal vortice che già imbriglia la terra (e con lei noi tutti) verso scongiurabili ansie future. La lotta oggi è in ogni cosa, perché ogni cosa (la terra, l’umana comprensione, la complessità, il pensiero) è in lotta contro la propria estinzione. Meglio affrettarsi, meglio resistere, meglio vivere che subire un destino egoista e violento iscritto nella nostra idea di modernità.
Ps. Un consiglio, se la recensione vi ha incuriosito, comprate il libro in una una libreria amica e indipendente o prendetelo in prestito nella vostra biblioteca di quartiere. Iniziamo così…