di Anna Giulia Della Puppa
Si frammentano gli sguardi, i punti di vista; diventa radicale la capacità di immedesimazione, di immersione e la possibilità di saperne di più, di guardare ancora. È un codice estetico nuovo, per entrare nella guerra e per conoscerla. Evocazione e testimonianza assumono modalità nuove, sì sposta il focus del soggetto che testimonia, si diventa la testimonianza che si porta, ma in modo molto più immediato, incarnato, di qualunque altro tipo di testimonianza.
E poi in tutte le guerre, come in questa, affianco al prezioso lavoro dei fotoreporter (e come abbiamo detto dei testimoni) che ci trasmettono attraverso la loro sensibilità e il loro sguardo una presa diretta della guerra (sia della sua acuzie, che della sua quotidianità), ci sono le foto “di posa”. Sono foto che hanno una gettata diversa dalla testimonianza, si proiettano al futuro, vogliono dire un qui ed ora carico di valori più ampi, più lungimiranti. Se delle tantissime foto che raccontano i momenti di questa guerra ci rimarrà un ricordo più o meno nitido, in base alla sensibilità di ciascuno e alla capacità di queste di sbloccare narrazioni nel nostro cervello (e, pure, alla potenza della loro diffusione), questo genere di foto, quelle “di posa” hanno la volontà di cristallizzare il tutto in un momento. Non racconti processuali, ma attimi totali e auto-portanti.
Questa foto (l’immagine in testa all’articolo, ndr) è bellissima. È una foto che rimarrà tra i simboli di questa guerra ma è, al contempo, una foto che racconta una storia falsa. Vuole raccontarci di una guerra dove le bambine e i bambini hanno autodeterminazione al conflitto, dove ai bambini e alle bambine è dato di scegliere. E allora magari immaginiamo battaglioni di bambini e bambine che si armano per difendere il loro popolo, che vivono una quotidianità carbonara, partigiana. Immaginiamo bambini e bambine come soggetti forti in questo conflitto, come protagoniste e protagonisti attivi in questa guerra. La verità, se mai ne esiste una, è differente. Parla di sfollate e sfollati, di occhi pieni di orrore, di paura e sì, anche di odio. Parla di bambine e bambini che vivono sotto terra da settimane, alle quali e ai quali manca tutto, che vedono le persone morire e piangere e puzzare e cacare e pisciare intorno a loro. Parla di bambine e bambini i cui padri, fratelli maggiori, zii, nonni sono stati armati e preparati a morire e questo fa paura.
Perché in guerra si muore. Sono bambine e bambini la cui vita è spezzata e che non trovano in questo conflitto nessuna possibile soggettivazione. Per una bambina “fortunata” che ha ancora il papà vicino a lei che la fotografa con uno smartphone e la posta sui social (immaginiamo, con tenerezza, come hanno confabulato insieme per costruire questa immagine, come hanno riso e si sono compiaciuti del risultato, come hanno scelto insieme quella in cui lei si piaceva) ce ne sono migliaia che piangono di terrore all’idea di non rivederlo più il padre, o che l’hanno perso già, che da giorni vivono nei vestiti sporchi e puzzolenti di umori corporei. Che hanno freddo. Bambine e bambini che subiscono la guerra (e certo, giustamente che odiano, ma che sono impotenti).
La guerra non è una bambina bionda con un fucile su una finestra sgarrupata. La guerra non ha simboli e non può essere detta se non con l’orrore e la paura della morte e con i destini collettivi, perché alla fine è questo che rimane.
Facciamola finita qui.