da Potere al Popolo Parma
Quando parliamo di ambiente in Emilia Romagna vengono in mente due cose. Da un lato le grandi opere inutili che, con l’unico scopo di far girare soldi, portano inquinamento, cementificazione, distruzione di habitat naturali e sperpero di fondi pubblici. Dall’altra abbiamo la città, l’ambiente urbano, la “grande esclusa” dalla questione ambientale ma che in realtà determina i tempi e i luoghi del nostro quotidiano più di ogni altra cosa. A guidare entrambe è la stessa logica, quella di uno sviluppo che ha come unico fondamento il profitto di grandi gruppi finanziari e industriali, di fronte al quale tutto il resto diviene secondario, sacrificabile.
L’emergenza climatica è dovuta rientrare quasi a forza negli slogan sia politici che commerciali, ma solo come pretesto per scaricare il peso di illusorie transizioni ecologiche su chi ha già sopportato il peso dello “sviluppo”: i lavoratori e le lavoratrici. Mentre il sistema economico continua il suo percorso di distruzione e inquinamento, si cerca di scaricare la responsabilità sugli individui, diventa un problema di pratiche e comportamenti individuali. Si promuove la raccolta differenziata ma non si intacca il business del packaging, si fanno le domeniche senz’auto mentre si continua a rendere indispensabile l’automobile. Finché qualcuno non decide di dire basta, come successo in Francia con il movimento dei gilet-jaunes.
Il territorio dove abitiamo è oggetto di costanti operazioni di messa a valore, che nella prassi delle “grandi opere” hanno trovato uno strumento di massimizzazione del profitto, anche dal punto di vista politico ed elettorale. La devastazione ambientale, lo spreco immenso di denaro pubblico e gli interessi economici e politici di una classe dirigente rapace, sono i più evidenti elementi che accomunano queste mostruosità, basti pensare al Tav in Val di Susa o al Mose di Venezia.
Come sappiamo, anche a Parma abbiamo la nostra piccola grande opera inutile, la TiBre che muore in un paese a 8 km dalla città collegando il nulla: un danno ambientale costato alla collettività oltre 500 milioni di euro, per permettere a Gavio di mantenere la concessione di Autocisa, aumentando del 7% i pedaggi di una delle autostrade più care d’Italia. Un progetto del 1974 riesumato dal governo Berlusconi nel 2006, e successivamente difeso da una levata di scudi del PD locale: una vicenda che rappresenta molto bene la qualità di una classe politica che si insulta a mezzo stampa o social, ma che sulle questioni di fondo batte i tacchi all’unisono, bravi soldatini dello “sviluppo”.
Fuori green, dentro grey come il cemento di cui ci hanno riempito l’orizzonte. Un cemento spesso di scarsa qualità, come ci hanno dimostrato i recenti fatti di cronaca: il crollo di strade, scuole, viadotti, lo sprofondamento di Venezia o gli allagamenti sempre più frequenti. L’unica grande opera di cui abbiamo bisogno è la manutenzione del territorio e un controllo pubblico sugli insediamenti urbani che non faccia deroghe e concessioni ai signori del cemento, in nome di posti di lavoro sempre più precari e malpagati. La risposta non può essere la stessa che ha generato il problema.
Il cattivo cemento è il protagonista indiscusso delle nostre città, nell’urbanizzazione fuori controllo delle periferie e nella continua costruzione di centri commerciali spaventosi, che hanno trasformato non solo il paesaggio urbano, ma anche il modo di vivere delle persone. Tutto questo a scapito ovviamente dei servizi e dei beni comuni della città, dove i piani urbanistici, tramite la legge regionale sull’urbanistica, sono stati sostituiti dagli “accordi operativi” tra amministrazione comunale e operatori privati. Questo è un ulteriore strumento per affinare una tecnica di governo della città che ormai conosciamo bene. Pensiamo ai centri storici, prima ripuliti dalla popolazione non gradita attraverso le allarmanti campagne sulla sicurezza e l’aumento degli affitti e, poi, trasformati nelle scenografie dei grandi eventi sul “food” e sulla cultura fuffa. Pensiamo alla pioggia di denaro pubblico per “rimanere competitivi” al prezzo della privatizzazione selvaggio dei servizi pubblici, nella loro commercializzazione, non più diritto ma lusso. Oppure, la costruzione incessante di periferie e la produzione di disagio sociale che si traduce in campagne securitarie, a loro volta anticamera di nuove speculazioni per continuare a far girare la ruota. L’unica logica lecita in queste strategie è la rendita, la messa a valore, di fronte alla quale la città pubblica muore, lasciandoci una serie di scenografie per turisti: a noi la scelta, qui possiamo essere comparse o clienti.
I criteri di “attrattività” e “competitività” sui quali è scritta e basata la legge regionale sull’urbanistica – che ci hanno portato al modello della “città vetrina” neoliberale e al peggioramento della vita di chi lucida quella vetrina ogni giorno col proprio sudore – non sono valori in cui possiamo riconoscerci. Per noi le città si costruiscono attorno alle esigenze dei loro abitanti, non attorno ai valori dei muri in cui vivono. Sembrano opzioni ingenue e utopiche, guardandosi intorno, eppure è più realistica questa nostra opzione rispetto all’ipocrisia con cui si dichiara il consumo di suolo zero mentre continua la cementificazione a ritmi forsennati: la vera utopia sta nel credere di poter continuare così. Se c’è da scegliere tra le due, noi non abbiamo dubbi. Certo si tratta di contrastare grandi interessi, ma se la politica non ha il coraggio di metterli in discussione è davvero un inutile esercizio di parole, come quello a cui siamo tristemente abituati da ormai quarant’anni.