Non si possono curare i pesci senza l’acqua. Ancora sul caso Bibbiano

di Mirco Moroni

Ho letto e condiviso l’articolo di Andrea Davolo sulla vicenda di Bibbiano. Accolgo il suo invito ad aprire una riflessione tra gli operatori e tra i soggetti istituzionali e propongo qui di seguito alcune riflessioni. Nei quarant’anni di lavoro nei Servizi socio-sanitari pubblici mi è capitato spesso, in presenza di situazioni multiproblematiche che coinvolgevano i destini di minori, di fare questa affermazione: «Non si possono curare i pesci… togliendoli dall’acqua. Perché l’acqua è la salute del pesce».

Se il pesce della metafora è un bambino, l’acqua in cui vive è la sua famiglia; pertanto occorre curare la limpidezza dell’ acqua per… curare il pesce. Se il pesce è una famiglia in difficoltà, la sua acqua è la comunità in cui vive. Senza una comunità in cui sciogliere le proprie preoccupazioni le famiglie contemporanee si sentono sempre più sole e incompetenti anche nelle funzioni educative di base connesse con l’allevamento dei figli. Per questa ragione, se il pesce è la Comunità, senza un Welfare di Comunità che funzioni, ciò che resta delle relazioni sociali comunitarie è destinato, in questo mondo “liquido”, a soccombere nella frammentazione e nell’isolamento.

Per molto tempo i Servizi sanitari e sociali sono stati un connettore istituzionale forte, almeno fino a quando la Politica ha assunto e mantenuto a sé, direttamente, le funzioni di advocacy, di protezione delle fasce sociali deboli. L’attacco che da più parti, negli ultimi venti anni, è stato portato ai Servizi socio-sanitari pubblici ha avuto effetti devastanti e distruttivi e ne ha minato la credibilità e l’efficacia fino a renderli marginali e irrilevanti: una politica sciagurata ha tagliato il ramo dell’albero istituzionale che la sosteneva e ne costituiva, al contempo, nella prassi, il riferimento valoriale.

Prima che si inaugurasse la triste pagina della esternalizzazione dei Servizi sociali ai più disparati soggetti privati da parte degli enti locali, questa Regione aveva costruito un modello gestionale e culturale che il mondo ci invidiava. Siamo stati i primi a chiudere non solo gli ospedali psichiatrici, ma i brefotrofi, gli istituti lager, e siamo stati i primi a istituire Servizi integrativi e sostitutivi delle famiglie (gruppi appartamento, gruppi famiglia). Mai, in nessun momento, le famiglie più fragili di cui, in casi assolutamente eccezionali, veniva decretata la decadenza della patria potestà, venivano abbandonate.

Ricordo, per inciso, che in provincia di Parma, forse per primi in regione, abbiamo costruito, più di venti anni fa, gruppi di sostegno psicologico e di auto-mutuo aiuto dedicati sia a bambini che a genitori a cui il Tribunale dei minori aveva sospeso la patria potestà. Già allora questo approccio sistemico alle famiglie fragili vantava importanti precedenti a livello internazionale. Basti qui ricordare i contributi di Daniel Gwinn della Tavistock di Londra, o quelli dell’Istituto Ackerman di New York: entrambi lavoravano e lavorano con famiglie multiproblematiche e maltrattanti includendo, nel lavoro terapeutico con le famiglie di origine, i figli di tutte le età, a cui sono riservati i cosiddetti “gruppi di parola”, in una logica in cui tutti i protagonisti divengono una risorsa evolutiva e terapeutica per la trasformazione delle relazioni nella famiglia allargata e intergenerazionale. Questi professionisti, per inciso, hanno tenuto a Parma, a suo tempo, importanti seminari di formazione promossi, in collaborazione con l’Ausl, da parte di IDIPSI, la Scuola per psicoterapeuti di cui mi onoro di essere, da una decina di anni, il direttore scientifico.

Il valore aggiunto che rendeva unica quella esperienza era l’integrazione tra Servizi sociali e Servizi sanitari. Nella stragrande maggioranza dei casi, almeno fino ai primi anni del 2000, i Servizi sociali erano gestiti, su delega dei Comuni, dalle Ausl.

I vantaggi, per entrambi i soggetti istituzionali, di questa formula gestionale, erano innumerevoli. In primo luogo gli operatori avevano la possibilità di un confronto continuo: la competenza degli operatori sociali, assistenti sociali ed educatori professionali, si armonizzava con la competenza clinica degli operatori sanitari, psicologi, neuropsichiatri infantili. Si trattava di operatori che “gestivano” direttamente i Servizi socio-sanitari, assunti in ruolo e impegnati in una continua esperienza sul campo, caratterizzata da una ricerca e da una formazione in servizio permanenti. Quegli operatori parlavano lo stesso linguaggio, condividevano una metodologia comune, in cui le funzioni di valutazione e quelle di supporto alle famiglie erano correttamente separate. I casi dubbi erano oggetto di valutazioni plurime, di audit clinico e sociale costanti e coinvolgevano èquipe socio sanitarie allargate.

Per chi volesse fare una verifica, un indicatore interessante di qualità di quel modello organizzativo potrebbe essere quello costituito dal numero dei minori in allontanamento dalle famiglie: non erano (e non temo smentite) nemmeno la decima parte di quelli attuali. Un secondo indicatore interessante potrebbe essere quello dei costi del Servizio sociale. Anche qui, senza tema di smentite, conti alla mano, è facile dimostrare che essi erano la metà di quelli sostenuti oggi dai Comuni e dalle loro associazioni. La ragione è semplice. Non esistevano pesanti apparati direzionali dal momento che il soggetto gestore, l’Ausl, appunto, favoriva le sinergie interprofessionali e amministrative e gestiva, come soggetto direzionale unico, sia i Servizi sanitari che quelli sociali.

Vorrei chiarire che l’Ausl, dal confronto continuo con i Servizi sociali a lei delegati, ricavava enormi vantaggi sul piano della cultura di Servizi: gli operatori sanitari avevano piena consapevolezza che ogni Servizio sanitario ha sponde sociali e che una corretta gestione dei Servizi sociali contiene efficacemente gli accessi inappropriati ai Servizi sanitari. Oggi, come vedremo, esiste un formidabile rischio di patologizzazione, in senso sanitario, di problematiche sociali. E questo rischio è direttamente proporzionale all’isolamento culturale del mondo sanitario dal mondo del sociale: chi non gestisce Servizi sociali diventa gradualmente acefalo rispetto a quel mondo. Come cercherò di dimostrare, chi non gestisce e non produce Servizi sociali perde visione, competenza, capacità di lettura della complessità. In seguito alla separazione gestionale dai Servizi sociali, i Servizi sanitari si sono progressivamente accecati, inseguendo logiche iperspecialistiche, e abbandonando, al contempo, logiche olistiche e sistemiche, divenendo dispensatori inflattivi di diagnosi cliniche che non leggono nulla e, meno ancora, sono in grado di costruire un modello di comprensione affidabile di dinamiche sociali multiproblematiche.

Qualcuno potrebbe obbiettare che le forme di disagio familiare e sociale si sono aggravate nel tempo, che ci confrontiamo con problematiche sociali più gravi e che le famiglie di oggi, attraversate da differenze culturali (i processi di migrazione), da ricomposizioni post divorzio, dall’aumento dei nuclei monoparentali ecc., non sono quelle di un tempo, caratterizzate da forti implicazioni intergenerazionali. Si tratta solo di una diversa complessità, non maggiore, tuttavia, in termini di variabili multiproblematiche. Trascuratezza, maltrattamento, abusi, sfruttamento minorile, situazioni di abbandono, esistevano anche venti o trenta anni fa. La vera differenza non è e non era nell’oggetto degli interventi, ma nei soggetti istituzionali che li leggevano e li leggono.

Già negli anni Ottanta del Novecento assistevamo a una deriva culturale che, ideologicamente, predicava l’efficienza del “privato” rispetto al pubblico. Si affermavano soggetti privati portatori di un afflato “giudicante e salvifico” che avevano come mission prioritaria la denuncia delle famiglie “maltrattanti” e la conseguente azione giuridico-salvifica nei confronti dei minori “vittime” di quelle stesse famiglie. È di quegli anni l’istituzione del Telefono azzurro e la nascita del Centro del bambino maltrattato di Milano. Al di là delle intenzioni benevole dei loro fondatori, questi soggetti predicavano, ad esempio, l’utilità strategica della immediata denuncia penale delle ipotetiche famiglie maltrattanti, vale a dire una via “giuridica” fortemente interventista, in presenza anche solo di larvati sospetti di eccessi di mezzi di “correzione” educativa. A quelle scuole di pensiero si sono formati, con esiti non sempre brillanti, diversi operatori del privato sociale che, spesso in buona fede, ma con mezzi formativi insufficienti, si sono inventati e messi sul mercato come gestori di Comunità educative o “esperti” di maltrattamenti o di abusi.

Ho ricordi precisi di quegli anni e di nuove e zelanti Comunità educative private che, con estrema facilità, teorizzavano l’esistenza di abusi sessuali dietro semplici, ancorché severe, condizioni di trascuratezza o labilità educativa, riconducibili a famiglie povere economicamente e culturalmente o/e fragili sotto il profilo psicologico. Ricordo, tra le altre, una nostra battaglia per contrastare gravi errori di valutazione da parte di una Comunità familiare che, non riconoscendo le nostre valutazioni come Servizio pubblico, si opponeva alle nostre letture più caute e alle conseguenti nostre decisioni, costringendoci ad una azione di forza per allontanare un minore da quella Comunità. Faccio notare come i responsabili di quella Comunità, irretiti in una costrutto di “triangolo drammatico” dalle loro stesse premesse, si sentissero “salvatori” di “vittime”, i bambini, dalle loro famiglie di origine, descritte invariabilmente come “persecutorie” e abusanti. Ricordo con precisione come noi operatori del Pubblico venissimo descritti, da questi colleghi del Privato sociale come burocrati anaffettivi, in contrapposizione a loro, nati nel Privato familiare e auto-accreditantisi come “nuove famiglie”, calde e accoglienti, riparative , risarcitorie e salvifiche .

Faccio rilevare che alcuni di questi nuovi soggetti godevano di grandi consensi in vari ambienti privati, che andavano dalla Unione industriali ad ambienti ecclesiali, fino a molti enti locali che rivendicavano un ritorno alla gestione diretta dei Servizi sociali. Sia chiaro: io attribuisco e attribuivo al Privato sociale un peso ed un ruolo decisivo, come partner del Pubblico, nell’accompagnamento e nella promozione sociale di famiglie fragili. Da partner, purtroppo, questi soggetti sono divenuti progressivamente non solo gestori di Comunità, ma “valutatori” di casistiche socio-sanitarie, decisori, spesso autoreferenziali, dal momento che, con una decisione discutibile, la nostra stessa Regione ha propiziato il rientro agli enti locali, i Comuni, della gestione diretta dei Servizi sociali. Perché, purtroppo, dobbiamo ammettere, col senno di poi, che spesso i Comuni, per assenza o penuria di professionisti preparati in questo ambito, hanno a loro volta delegato al Privato compiti valutativi che in precedenza erano in carico al Pubblico.

Le motivazioni della nostra Regione erano, in parte, politicamente nobili. La Regione sosteneva che i Comuni dovessero ritrovare, attraverso una più stretta prossimità alle problematiche del Sociale e dunque attraverso la gestione dei Servizi sociali, un legame ed una reciprocità con le rispettive Comunità, riappropriandosi di quegli strumenti di “lettura” dei problemi che i politici definivano come “indeboliti”, in seguito alla delega “tecnica” della gestione all’Ausl. Quello che è avvenuto, una volta ritirate le deleghe da parte dei Comuni, purtroppo nella maggior parte dei casi e con le poche virtuose eccezioni, in cui sono stati conservati rapporti strettissimi fra opertori Ausl e operatori comunali, è sotto gli occhi di tutti: l’esternalizzazione ai privati dei Servizi sociali. Il paradosso è che le stesse assistenti sociali , in molti casi, non sono più nemmeno dipendenti a tempo pieno dei Comuni, ma di cooperative sociali o di altri soggetti privati. Gli operatori appartengono a “famiglie istituzionali diverse”: di volta in volta sono dipendenti di soggetti privati in appalto ad altri soggetti ( Asp, associazioni di Comuni, a loro volta con un regime giuridico privatistico) che intrattengono con i Comuni, loro committenti, un rapporto di delega. Siamo arrivati… alla delega… della delega… della delega.

Oggi gli operatori di questo nuovo “Sociale” condividono in molti casi, con la propria utenza, la stessa estraneità istituzionale. Inevitabilmente, proprio a causa del loro scarso radicamento istituzionale, nelle loro logiche professionali prevalgono comportamenti di rango, normativi, giudicanti. Hanno nei confronti dei Comuni, da cui in terza o quarta battuta dipendono, quello che con una metafora definirei un “attaccamento disorganizzato”. La letteratura ci dice che i bambini con “attaccamento disorganizzato” hanno sentimenti di timore nei confronti delle figure adulte che dovrebbero proteggerli. Sono spaventati da piccoli e… una volta divenuti grandi… diventano “spaventanti”: diventano bulli di quartiere, piccoli boss, nella logica del “vinco io e perdi tu”. Per analogia, spesso, questi operatori obbediscono a logiche di rango: il capo, nei confronti del quale nutrono timore reverenziale, dice di fare così e… noi eseguiamo. All’autonomia professionale si sostituisce l’obbedienza timorosa a un capo. Questo capo, in molti casi, spesso in buona fede, anziché riconoscersi in una politica “alta”, finalizzata alla comprensione sistemica di mondi multiproblematici, dal momento che tale politica non viene più proposta da nessuno, si sente personalmente autorizzato a mettere in atto una sua mission ideologica da triangolo drammatico: punire i presunti persecutori, i genitori, salvare le vittime, i bambini. Gli operatori subalterni che si adeguano, sperano, probabilmente, di venire, in questo modo, cooptati in un vertice come “salvatori”, in quel “cerchio magico” appunto, che i loro capi, ideologicamente, in modo autoreferenziale, hanno costruito. Il che corrisponde, purtroppo troppo spesso, a… salvare i pesci togliendoli dall’acqua… lasciando l’acqua come è.

Non è più, dunque, il Comune committente a dettare le linee politiche, ma lo stesso funzionario che dirige questo o quel servizio sociale. Questa logica, paradossalmente, trova spesso nei Comuni argomentazioni dialetticamente credibili: nostro compito, vi diranno i nuovi funzionari del Sociale del Comune, non è quello di gestire… perché in questo il Privato è più efficiente ed elastico. A noi, dicono, toccano la programmazione e il controllo. Io sostengo che chi non gestisce non capisce. È come descrivere uno che non sa cucinare, ma solo apparecchiare la tavola. Chi non cucina e preferisce il salotto, diceva Brecht, è destinato, in breve, a non capire più nulla del mondo complesso di cui si deve occupare. Di cuochi, nei Comuni, ne sono rimasti pochi e se non sei un cuoco… puoi essere, purtroppo, anche un pessimo assaggiatore, ossia essere incapace di esercitare un controllo sulla qualità del cibo e fidarti di chi, magari, ti presenta un curriculum da chef… ma sa cucinare solo una pietanza.

In quarant’anni di lavoro, purtroppo, ho visto tante famiglie abusanti, casi terribili, di cui alcuni inemendabili. Ho visto le gravi perversioni di chi si metteva insieme a una compagna con il solo obbiettivo di far prostituire la compagna stessa e le sue figlie adolescenti dopo averne abusato. E ho visto quelle stesse adolescenti, al momento del loro allontanamento dalla famiglia, difendere il loro persecutore perché “le faceva sentire le più amate”… Ho visto minori messi fuori da un balcone, nudi in pieno inverno, per punirne l’oppositività, o genitori che per punire figli che non rispondevano al loro primo richiamo, usavano come mezzo correttivo un ferro da stiro ardente pressato sull’orecchio… E ho visto questi stessi minori piangere disperatamente al momento dell’allontanamento da questi genitori… perché, come è noto da sempre, spesso i genitori maltrattanti sono disperatamente amati dai figli maltrattati che non solo si colpevolizzano per le angherie subite ma, paradossalmente, quasi sempre li proteggono. Ho visto genitori, madri e padri, allontanarsi senza farsi più rivedere o sentire dai propri figli piccolissimi e ripresentarsi dopo 4 anni, proponendo istanza per potersi ricongiungere a loro, bloccando pratiche di adottabilità già in fase di esecuzione. Ho visto bambini assumere ruoli protettivi e genitoriali nei confronti di genitori, madri e padri, alcoolizzati all’ultimo stadio, ma posso anche assicurare che le situazioni veramente inemendabili si contano, nella mia esperienza, sulle dita delle mani.

So di fare affermazioni forti che forse pochissimi potranno condividere, ma alla mia età e dopo 40 anni di esperienza nei Servizi, sento l’urgenza di farle. Non ho personale conoscenza della situazione di Bibbiano e non conosco, se non di fama, il collega Foti. Di una cosa sono certo: non conosco nessuna famiglia affidataria che abbia preso presso di sé un minore per ragioni di lucro. La modestia nella consistenza dei contributi economici alle famiglie affidatarie è proverbiale: se non è cambiato qualcosa negli ultimi dieci anni, mi risulta incomprensibile come una famiglia affidataria possa avvantaggiarsi economicamente attraverso questo istituto. Non credo, pertanto, che a Bibbiano qualcuno abbia speculato per avere vantaggi materiali. Credo invece che siano stati fatti errori politici da parte della committenza ed errori tecnici da parte di chi aveva responsabilità nella catena decisionale. E, infine, credo che gli errori più gravi, da cui derivano tutti gli altri, siano stati errori politici.

Ciò premesso, per entrare nel merito degli errori tecnici, vorrei dire qualcosa che, al di là delle mie intenzioni, potrebbe risultare sgradito alle famiglie affidatarie. Le famiglie affidatarie, come noto, sono rarissime e per ciò stesso costituiscono una risorsa preziosissima, in molti casi unica. L’affido familiare, come istituto, va tuttavia utilizzato con assoluta prudenza, in primo luogo quando il minore affidato ai Servizi sia ancora sub iudice e in attesa, ad esempio, di essere dichiarato adottabile per manifesta incompetenza genitoriale. In questi casi la prima imprudenza da evitare da parte dei Servizi è quella di far vivere al bambino un grave e prevedibilissimo “conflitto di lealtà” tra la famiglia di origine e quella affidataria, compito difficile, dal momento che spesso si contrappongono, nei bambini, vissuti “opposti” di appartenenza: quello verso la famiglia biologica e quello verso la famiglia affidataria. L’affido è previsto dal legislatore come sostegno alla famiglia di origine, quando essa sia fragile o poco competente sotto il profilo educativo, ma nel momento in cui la valutazione dei vissuti traumatici del minore sia ancora in itinere, la scelta dovrebbe essere quella di una collocazione comunitaria temporanea del minore, fino a completamento dell’iter valutativo e non un affido familiare. Le ragioni sono evidenti: il minore va protetto in situazioni di autentica terzietà, al di fuori di ogni conflitto di lealtà, supportato da competenze professionali educative e psicologiche di alto profilo, in ambiente educativo protetto e soggetto, almeno, ad accreditamento pubblico. Le recenti intercettazioni in cui si ascolta una madre affidataria che esorta un bambino a scrivere “la verità” su abusi subiti è oggettivamente grave e lo sarebbe anche se gli abusi subiti dal bambino fossero reali. Non è un compito delle famiglie affidatarie esortare i bambini a “dichiarare” una qualsiasi “verità”.

Quello che, invece, deve far riflettere la politica è, purtroppo, questa circostanza: a causa della dissipazione del patrimonio esperienziale pubblico, oggi in questa Regione non esiste un Servizio sociale che abbia una metodologia uguale all’altro. In ogni provincia esistono come minimo quattro Servizi sociali diversi, gestiti da soggetti istituzionali diversi, con metodologie diverse, non comunicanti fra di loro, al punto che, senza tema di smentita, possiamo affermare che in Emilia Romagna esistono oggi 40 Servizi sociali diversi, reciprocamente separati e autoreferenziali come le canne di un organo che suonano note diverse. Difficile trovare la giusta nota nell’incertezza del canto… in questa cacofonia. Fino a quando i Servizi erano delegati all’Ausl, avevamo nove Servizi sociali coordinati a livello provinciale. Già allora il coordinamento Regionale era complesso. Finite le Province è venuto meno anche quel minimo di coordinamento che come Ausl avevamo cercato di assicurare attraverso la Direzione aziendale dei Servizi socio-sanitari a cui mi onoro di aver dato l’avvio.

Tardivamente, ma fortunatamente, la Regione ha recentemente nominato una commissione per approfondire questa materia, di cui fanno parte due dirigenti di grande competenza, Pietro Pellegrini di Parma e Giuliano Limonta di Piacenza. A loro mi appello per suggerire che la Regione istituisca un gruppo tecnico di operatori pubblici competenti, cui affidare compiti di audit clinico e sociale , e a cui debbano obbligatoriamente riferirsi tutti i Servizi sociali della Regione. Non è pensabile che gli strumenti di valutazione della genitorialità, le strategie di supporto alle famiglie fragili, le linee strategiche di Servizio sociale ecc. siano affidate al bricolage (a volte eccellente, a volte pessimo) di operatori di provenienza eterogenea. Il fatto stesso che le funzioni di controllo dei Servizi, come dimostra il caso di Bibbiano, vengano vicariate… da parte della magistratura… anziché da professionisti accreditati a livello regionale, costituisce un grave vulnus per la credibilità delle nostre istituzioni che meritano, per la loro storia, ben diverso riconoscimento e sostegno.