di Susanna Preo
«Siamo abituati a considerare gli immigrati come valanghe umane di diseredati in cerca di fortuna, dimenticando che, per quanto arrivino a mani vuote, dentro si portano mondi che non conosciamo. Siamo capaci al massimo di dimostrarci caritatevoli, ma difficilmente proviamo curiosità per le loro tradizioni, culture, abitudini, neppure ci interessa sapere cosa abbiano abbandonato alle spalle, quanta tristezza costi piantare tutto e partire verso il nulla». (Pino Cacucci)
Questo modo di vedere, o forse di non vedere, gli immigrati è purtroppo molto diffuso. Lo ritroviamo oggi nei discorsi e negli slogan della politica, così come nelle chiacchiere della gente comune, il medesimo vortice di disinformazione, ignoranza, indifferenza, spersonalizzazione. La medesima incapacità e non volontà di riconoscere l’altro come persona, di riconoscerlo come un proprio pari, come un soggetto politico e non solo come vittima, come risorsa e non solo come portatore di bisogni.
E questo disinteresse, questo sguardo disumanizzante e opportunista hanno segnato anche le vicende dei milioni di italiani che, a partire dalla Grande emigrazione di fine Ottocento fino al secondo dopoguerra, sono partiti per cercare fortuna altrove. Trovandosi a fare i conti con lavori durissimi, faticosi, in condizioni molto spesso di sfruttamento: dai lavori di bassa manovalanza negli Stati Uniti riservati agli italiani, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, tanto da attribuirgli il soprannome di “pala e piccone”, al pesantissimo e pericoloso lavoro nelle miniere francesi e soprattutto belghe nel secondo dopoguerra, dove gli emigrati, privi di esperienza, venivano spesso mandati direttamente al lavoro di fondo senza alcun previo addestramento, con conseguenze spesso funeste. E poiché in base all’accordo italo-belga i migranti potevano lavorare solo nelle miniere, se cercavano di cambiare mestiere, venivano prima messi in prigione e poi espulsi.
Anche le condizioni di vita con cui dovettero confrontarsi i migranti italiani erano in generale molto dure: a partire dagli alloggi, che erano insufficienti, molto spesso penosi, basti pensare ad esempio che i minatori in Belgio erano costretti a vivere in baracche, per lo più ereditate dai campi di raccolta dei prigionieri di guerra, fino ad arrivare all’ostilità delle società ospitanti, al vero e proprio razzismo nei confronti degli italiani, soprattutto meridionali.
Non bisogna dimenticare poi che i migranti non avevano libertà di movimento all’interno dei paesi di arrivo, dal momento che in base agli accordi stipulati dall’Italia nel secondo dopoguerra, era il paese di destinazione a decidere il luogo di impiego, il mestiere, il datore di lavoro e la durata del contratto, rendendo precaria la presenza dei migranti sul piano temporale e forzata la residenza.
Un ulteriore aspetto dell’emigrazione italiana riguarda l’esodo clandestino e irregolare, di cui gli italiani a lungo detennero il primato, e che nei primi anni del secondo dopoguerra divenne un vero e proprio fenomeno di massa, una piena incontenibile che per quanto riguarda l’Europa si dirigeva in Belgio, Svizzera, Lussemburgo e Francia, paese in cui era persino incoraggiato dalle autorità pubbliche in funzione delle proprie esigenze economiche, demografiche ed etniche.
In maniera analoga a quanto accade oggi per terra e per mare, i migranti clandestini attraversavano le frontiere in condizioni drammatiche: in barca, a nuoto anche, per lo più a piedi, mal equipaggiati, impreparati e affamati: molti di loro, soprattutto donne e bambini persero così la vita, perdendosi tra i sentieri innevati, morendo assiderati o cadendo in burroni.
In tutte queste vicende colpisce come i migranti, sia regolari che clandestini, venissero sempre utilizzati in base alle esigenze, economiche soprattutto, dei paesi di destinazione: mere braccia da indirizzare ai lavori più duri e disertati dai lavoratori autoctoni, da accogliere o espellere a seconda delle congiunture.
E proprio la conoscenza della storia che abbiamo alle spalle, della sua durezza, dovrebbe suscitare in tutti noi empatia e solidarietà nei confronti di chi oggi lascia tutto nel tentativo di costruirsi una vita migliore, dovrebbe spingerci ad immedesimarci, a porci delle domande, senza certamente negare la complessità che le dinamiche migratorie portano con sé. Come dice un sopravvissuto alla strage di Marcinelle: «Abbiamo ubliato la memoria di quanto siamo stati miserabili nel mondo. Con la storia che abbiamo si dovrebbe capire per primi anche le povere diavole che arrivano ogni giorno da un buco di miseria». Dovrebbe essere così. Dovrebbe essere un istinto naturale, umano in realtà, aldilà quindi della nostra storia. Ma in sua assenza ricordare ciò che è stato può e deve servire come antidoto contro l’ostilità, il razzismo, la chiusura, la tentazione di indicare nei migranti la causa di tutti i mali, primo fra tutti quello dell’insicurezza. Può e deve servire per riscoprire il valore della solidarietà.
La precarietà vissuta dai migranti italiani dovrebbe sensibilizzarci verso quella vissuta dai migranti di oggi, che ad esempio nei campi di accoglienza, spesso recintati e quasi sempre separati dai centri urbani, vivono un tempo che è «un tempo di attesa protratta e soprattutto di incertezza, che rende il tempo presente una dimensione liminale che lascia in sospeso il riconoscimento di un passato violento e che annulla la dimensione del futuro».
L’attraversamento delle frontiere con la Francia, nelle circostanze drammatiche di cui si è detto, dovrebbe renderci solidali verso chi oggi cerca di oltrepassarle nelle medesime condizioni di clandestinità, cosi come ricordare le baracche in cui gli italiani venivano alloggiati, lo sfruttamento cui erano sottoposti, dovrebbe farci indignare di fronte alle condizioni in cui vivono e lavorano gli immigrati impiegati come braccianti nelle nostre campagne.
E proprio per capire che le forme del migrare mutano ma sono sempre esistite, per utilizzare il passato come strumento di comprensione del presente, per contrastare la disinformazione dilagante, i luoghi comuni che imperversano sul tema dell’immigrazione attuale, lo sguardo mistificante e privo di complessità con cui viene affrontato, Il Centro studi movimenti e il Ciac hanno organizzato un ciclo di incontri basato proprio sul confronto tra le migrazioni di ieri, italiane e non solo, e le migrazioni di oggi. Un modo, insomma, per confrontare il passato col presente.
[Guarda il programma degli incontri Migranti di ieri, migranti di oggi]