di Francesco Antuofermo
“Nel linguaggio giuridico il furto è l’atto e il fatto di impossessarsi di beni altrui sottraendoli a chi li detiene al fine di trarne profitto per sé o per altri”. La definizione è di una semplicità disarmante. A volte i sindacati e i partiti di opposizione intraprendono feroci battaglie per ridurre la pressione fiscale. Ma se per le imprese può avere un senso, per gli operai diventa una lotta contro i mulini a vento. In realtà gli operai versano imposte solo formalmente. L’imposta reale che pagano è la ricchezza nazionale che producono per tutti e per la quale ricevono in cambio un salario i cui movimenti generali sono regolati dall’espansione e dalla contrazione della massa di manodopera disoccupata. E questa a sua volta dipende dall’alternarsi dei periodi positivi o negativi del ciclo industriale.
La ricchezza sottratta agli operai viene poi suddivisa tra imprese e Stato: le prime impiegano la loro parte per l’accumulazione e per riattivare il ciclo produttivo su scala allargata; lo Stato dovrebbe invece utilizzarla per il welfare, per la sanità, per la scuola. Questa suddivisione della ricchezza si poggia su un equilibrio molto fragile, come una bilancia sensibilissima: quanto debba andare agli uni o agli altri dipende dalla rapacità e dai rapporti di forza e dal piazzare gli uomini giusti al posto giusto nelle stanze del parlamento e del governo.
Ma qualsiasi sia l’entità della ripartizione, non manca mai l’occasione per gli industriali, di piangere e di chiedere a gran voce di spostare il peso delle imposte a loro vantaggio, come se la ricchezza estorta agli operai fosse una specie di figliol prodigo che debba tornare nelle loro tasche ad ogni costo.
La pressione degli industriali è continua e avviene con il supporto delle loro organizzazioni sindacali, come la Confindustria, o grazie agli organi di stampa, spesso e volentieri di loro stessa proprietà. E queste richieste si susseguono in modo alquanto indipendente dall’andamento dei loro affari, siano questi negativi o tendenti al bello. Richieste che quasi sempre vengono accolte dal governo in carica, qualsiasi sia il suo colore.
Proprio in questi giorni gli industriali che aderiscono alla Confindustria, hanno iniziato nuovamente a battere cassa. Sono preoccupati soprattutto per i finanziamenti che il precedente governo a guida PD aveva promesso per favorire la ristrutturazione nell’industria 4.0 in Italia. Così, hanno pensato bene di formalizzare delle richieste specifiche, con l’obiettivo di mantenere e incrementare i finanziamenti per la trasformazione digitale delle loro aziende.
Queste sono solo alcune delle loro richieste. In primo luogo, garanzie sull’operatività di chi dovrà decidere i quantitativi e la direzione delle somme da destinare alle imprese per le ristrutturazioni aziendali digitali. In secondo luogo, la conferma della possibilità di poter effettuare l’ammortamento delle spese sostenute dalle aziende per le innovazioni. Inoltre, il sostegno agli investimenti per acquistare o acquisire in leasing macchinari, attrezzature, impianti, beni strumentali ad uso produttivo e hardware, nonché software e tecnologie digitali con concessione di crediti agevolati alle imprese su ricerca e sviluppo (“nuova Sabatini”).
Tradotto in moneta significa milioni di euro a disposizione delle imprese per rinnovare gli impianti e abbattere i costi di produzione.
Proprio questo ultimo punto porta al nocciolo del problema. Le imprese vogliono effettuare la ristrutturazione digitale delle loro fabbriche con la quota di ricchezza rubata agli operai e destinata allo Stato, ossia con la sua parte sociale.
Il pilastro sul quale poggia il concetto di proprietà privata è che ciascuno è proprietario del prodotto del suo lavoro. Il concetto è tanto caro alla nostra borghesia fino a che riguarda i beni personali, ma svanisce non appena riguarda la produzione di fabbrica. All’interno della sfera produttiva il rapporto si capovolge. Qui il proprietario non è chi produce, ma chi detiene il possesso dei mezzi di produzione. Gli industriali, sulla base del diritto di proprietà detenuto su macchine e impianti, si appropriano del risultato del lavoro che verrà prodotto da altri. Questa ricchezza permetterà di ristrutturare le aziende, incrementare la produzione, licenziare i lavoratori in sovrannumero e rivendicare per sé la titolarità sul ricavato futuro che, in realtà, dovrebbe essere anche questo di proprietà degli operai che l’avranno prodotta.
Si verifica quindi un corto circuito alquanto sorprendente. Il diritto alla proprietà privata, tanto caro alla borghesia, si trasforma dalla parte del capitalista come il diritto di appropriarsi di lavoro svolto da altri e non retribuito, mentre dalla parte dell’operaio lo stesso diritto diventa impossibilità di appropriarsi del proprio prodotto: negazione del diritto stesso. In altre parole, un vero e proprio furto!
Avidità e avarizia ci sono sempre state, espressioni non solo della natura umana ma anche di circostanze storiche e sociali. Ma in questo sistema sociale gli avari come Arpagone di Moliere proliferano in modo esponenziale.
Gli operai sono avvertiti: al loro sfruttamento non ci sono limiti. Per le ristrutturazioni dell’industria 4.0 ci saranno tanti soldi che permetteranno agli industriali di continuare ad estorcere ricchezza e garantirsi i loro privilegi. Per loro nulla, solo precarietà. Altro che reddito di cittadinanza o riforma della Fornero. Prima di tutto i profitti delle imprese. Per il resto tutto può essere rimandato a data da destinarsi.