di William Gambetta
Fogliazza, in una vignetta d’inizio settembre, metteva in luce la sorpresa di ciascuno di noi nel confrontarsi con una città dai volti diversi, quasi opposti. Da un lato citava la “cena dei mille” di piazza Garibaldi, un grande banchetto di centinaia di coperti, organizzata per scopi filantropici da Comune e altri “prestigiosi” enti, il cui costo era proibitivo ai più e, proprio per questo, era motivo di prestigio sociale per i partecipanti, accomodati lungo la tavola che correva lungo strada Repubblica, serviti da decine di camerieri, gustando delizie di chef famosi, nello scenario di palazzi nobiliari. Dall’altro, nella piccola e appartata piazza Inzani, nel cuore dell’Oltretorrente, la proiezione illegale di un film sulle violenze delle forze dell’ordine, promossa da collettivi di base del movimento antagonista, con centinaia di giovani e meno giovani ammassati per terra, attenti a ogni frammento della messa scena della morte del giovane Stefano Cucchi.
Due eventi che raccontano due anime della città, eredi entrambe di un passato che continua a pesare anche nell’epoca del neoliberismo astorico. Un tempo dove la storia non conta e la supremazia è del persistente consumo compulsivo di merci, talvolta anche di quelle che mostrano un’appariscente patina culturale. Un tempo in cui la riflessione critica non può che essere considerata un ostacolo da rimuovere o svilire, monetizzandone il consumo.
Ecco dunque, ancora, Parma nuova e Parma vecchia, l’una di fronte all’altra, guardarsi con reciproca diffidenza. È certo passata l’alternità sociale che segnava i due mondi attraverso il torrente: la città dei signori e quella dei miserabili, il potere costituito e la sovversione sociale, il perbenismo ipocrita e l’arlia popolare, la ricca mondanità e le fatiche operaie. E tuttavia il “centro”, con i suoi luoghi di potere e prestigio, conserva ancora la sua anima borghese, così come rimane orgogliosamente radicato nell’Oltretorrente lo spirito degli ultimi. Ciò non significa che in entrambi i quartieri non emergano le contraddizioni di una società frammentata e complessa ma queste trasformazioni non sembrano aver totalmente cancellato lo spirito profondo dei due quartieri.
A differenza del passato, però, la città è oggi ben più vasta di queste sue due storiche parti. Nel corso del Novecento, soprattutto a partire dal miracolo economico, anche Parma è stata investita dall’espansione urbana. Nati in tempi e con caratteri diversi, è difficile oggi indicare per i quartieri periferici, particolarmente per quelli sorti in anni recenti, elementi precisi che li caratterizzino politicamente o socialmente. Gran parte del tessuto sociale, ancora operoso alla fine degli anni settanta del secolo scorso, fatto di comunità parrocchiali, sezioni di partito, associazioni di volontariato, circoli ricreativi, sedi sindacali e altro, sembra oggi del tutto scomparso o per lo più sfibrato. Le stesse relazioni di quartiere si sono disgregate sulle spinte di processi sociali ed economici profondi. La mobilità del lavoro, i flussi migratori, prima di tutto di italiani ma ovviamente non solo, lo smantellamento dei luoghi di aggregazione sociale, la centralità acquisita dagli anonimi centri commerciali, la valorizzazione ideologica dell’individualismo e della competizione sociale sono solo alcuni degli elementi che spiegano il mutamento antropologico dei cittadini occidentali del XXI secolo.
Nella città neoliberista, dunque, è difficile rintracciare l’anima delle zone periferiche, le più colpite da questa metamorfosi. Se per alcuni quartieri – come l’Oltretorrente, ma anche il popolare Montanara – possono valere i resti di un’identità passata, per altri la perdita di punti di riferimento – le fabbriche e gli spazi di socialità dopo il lavoro o dell’attivismo politico – hanno disorientato i loro abitanti, spingendoli ancor più nei ristretti e frustranti confini del privato. Chi attraversa queste strade, frettolosamente, per pura necessità, è pronto a scaricare la propria rabbia qualunquista verso un qualsiasi capro espiatorio. Sono queste le zone urbane – magari in passato ancorate ai partiti della sinistra tradizionale – dove la ricomposizione di qualche forma di resistenza all’attuale barbarie non può che passare da processi di aggregazione collettiva.
Se infatti il modello neoliberista spinge al particolarismo e alla competizione, all’opposto, la città, per sua natura, chiama i suoi abitanti alle relazioni e ai legami comunitari. Un invito che – soprattutto in una fase di impoverimento generalizzato – può trasformarsi in pratiche di mutuo aiuto e in forme di mobilitazione per nuovi diritti (ma anche, talvolta, in difesa di privilegi egoistici). A fianco di molte associazioni di volontariato, gruppi di base e comitati attivi nelle lotte sociali, emerge così un inedito fermento di cittadini che, delusi dal ceto politico-istituzionale, magari solo per contrastare progetti devastanti o porre rimedi a disagi, tende ad autorganizzarsi. È un protagonismo che non si può ignorare o eludere (anche nei suoi aspetti negativi) e che, anzi, deve essere incoraggiato (o recuperato) per ricomporre in ogni quartiere spazi di democrazia e rivendicazione sociale.