da Potere al Popolo Parma
Secondo il rapporto Oxfam 2018, l’82% della ricchezza prodotta nel mondo nel 2017 è finita nelle mani di 2mila persone. Non è un errore di stampa, è proprio così. Nemmeno un centesimo è andato a 3,7 miliardi di poveri nel mondo. Anche l’Italia, nel club dei paesi ricchi, segue questo andazzo. Secondo lo stesso rapporto, infatti, in Italia il 20% più ricco della popolazione detiene il 66% delle ricchezze. Ma i numeri servono solo a dare fondamento a una sensazione che in realtà avvertiamo tutti, quella di essere su un piano inclinato e di scivolare giù, più o meno lentamente.
La chiamano crisi, ma dopo dieci anni viene difficile pensare che si tratti di un “momento”, è più probabile che sia in atto una trasformazione profonda nella società, in cui le vecchie garanzie non ci saranno più. Le vecchie garanzie, cioè diritti come l’istruzione, la sanità, una casa e un lavoro dignitosi, sembrano essere diventate un regalo del periodo delle vacche grasse. O almeno ci raccontano così. La verità è che sono, o meglio erano, conquiste ottenute col sangue e col sudore di lotte politiche, sindacali, sociali avvenute nei decenni precedenti alla sbronza degli anni Ottanta. Conquiste strappate con tenacia a un sistema economico che prosperava e prospera tuttora sullo sfruttamento dei lavoratori in occidente, ma non dimentichiamocelo mai, anche di quello che un tempo veniva chiamato Terzo Mondo, approssimativamente l’Asia, l’Africa e l’America Latina. Più tardi li hanno chiamati Paesi in via di Sviluppo, uno sviluppo che in molti casi non si verificherà mai, perché i governi di questi paesi sono spesso legati a doppio filo agli interessi delle multinazionali occidentali (ma anche cinesi e russe). Inoltre, il nostro modello di sviluppo è insostenibile da un punto di vista ambientale oltre che sociale: cosa succederebbe se un miliardo e mezzo di cinesi possedesse lo stesso numero di automobili dei cittadini europei?
Nel frattempo, è arrivata la globalizzazione che avrebbe dovuto risolvere tutti i problemi, abbattere le frontiere, avviare il mondo verso la prosperità del Mercato. Sì, con la maiuscola, come si usa per le divinità: il Mercato avrebbe garantito una vita soddisfacente a chiunque avesse avuto voglia di rimboccarsi le maniche. Ognuno in competizione avrebbe generato benessere e ricchezza assicurando un avvenire di pace, senza frontiere. E invece abbiamo visto moltiplicarsi le guerre, anche se le chiamavano operazioni umanitarie: Somalia, Iraq, Afghanistan, Libia, solo per ricordare quelle più note. Abbiamo visto alzarsi muri da Gerusalemme all’Ungheria e agli Stati Uniti. La libertà di spostarsi da un paese all’altro con disinvoltura ha portato le fabbriche europee e statunitensi, dove gli operai erano riusciti a conquistarsi salari dignitosi, a spostarsi verso paesi in cui i salari erano bassi, la manodopera disciplinata e senza tutele. Così, abbiamo scambiato la marea di oggetti a costo bassissimo, prodotta dai nuovi schiavi, per una ricchezza di cui godere, quando in realtà era l’esca che ci ha attirati nella trappola.
È la concorrenza di produzioni a basso costo che porta l’industria a trasferirsi dov’è più conveniente: quante fabbriche anche nel nostro territorio sono state acquisite da grandi gruppi che hanno poi licenziato e portato all’estero la produzione? All’inizio ci raccontavano che le aziende andavano via dall’Italia per colpa dell’articolo 18 e delle tasse elevate per le imprese. In questo modo, dalla legge Biagi al Jobs Act, hanno distrutto i diritti del lavoro per venire incontro alle esigenze delle grandi aziende. Ora sappiamo che erano solo bugie: le fabbriche continuano a trasferirsi, c’è sempre meno lavoro ed è meno tutelato, meno retribuito, sempre peggiore.
Ma noi non siamo le uniche vittime del fenomeno, anzi. Lo spostamento della manifattura dall’occidente industrializzato, le guerre neocoloniali per l’approvvigionamento di idrocarburi e materie prime, per non parlare della distruzione dell’ambiente causato dall’iper-sfruttamento delle risorse, hanno messo in moto una macchina migratoria senza precedenti. Non solo dall’Africa all’Europa, ma anche dall’America Latina al Nord America, oppure gli oltre 250 milioni di migranti interni in Cina. Una massa sterminata di uomini e donne in fuga per cercare di sopravvivere a guerre e catastrofi, o semplicemente per accedere a quel livello di vita “occidentale” veicolato in tutto il mondo grazie ai media: mass o personal che siano cambia poco, il messaggio rimane lo stesso. Dei 244 milioni di immigrati, ossia di persone che vivono in un paese diverso da quello in cui sono nate, secondo l’Oim, la stragrande maggioranza migra per motivi di lavoro, accanto a 40 milioni di sfollati e 22 milioni di rifugiati. Numeri che danno la dimensione di un fenomeno che difficilmente riusciremo a comprendere attraverso le panzane elettorali di un Salvini qualunque. È chiaro che se non lo riusciamo a capire non riusciremo nemmeno ad affrontarlo, figurarsi risolverlo.
Mentre le multinazionali devastano e saccheggiano interi territori per il profitto di un pugno di azionisti, il resto della popolazione si scanna per contendersi le briciole, sempre più piccole, sempre più scarse. È su questa menzogna che si basano le “riforme” che da quarant’anni a questa parte ci propinano: occorre favorire le imprese, che genereranno lavoro per magia. Negli ultimi 20 anni sono stati dati alle imprese 30 miliardi di euro sotto forma di incentivi statali di varia natura, una cifra grande che non ha sortito alcun effetto significativo sul piano occupazionale. In questo nuovo ordine, quando il Pil aumenta non garantisce più un meccanismo di redistribuzione a tutte le classi sociali, ma privilegia la concentrazione delle ricchezze nelle mani di pochi. In sostanza lavoriamo di più, lavoriamo peggio, con sempre meno servizi garantiti, sempre più poveri.
Lo scontro è tra gli sconfitti della competizione globale: i disoccupati, gli esodati, i lavoratori poveri, strozzati da mutui e rate, costretti a lavorare in condizioni sempre più umilianti. In questi anni, in cui i bisogni sociali si sono ingigantiti, la gestione politica dello Stato e delle pubbliche amministrazioni completamente fondata e volta a favorire il mercato, la concorrenza e il profitto, hanno demolito il welfare, preferendo pagare gli interessi alle banche piuttosto che (almeno) alleviare le conseguenze di questo enorme processo di cambiamento. Per i nostri bisogni non ci sono più soldi, mentre per le grandi opere inutili si trovano sempre risorse: si tratta di investimenti che avrebbero dovuto far girare l’economia, invece sono finite nelle tasche di improbabili benefattori del calcestruzzo. Il cemento, quindi, non solo ha deturpato le nostre città, non solo ha distrutto i fragili equilibri del nostro territorio, ma si è divorato le nostre scuole, i nostri ospedali, il nostro futuro.
E adesso, dopo anni che “i soldi non ci sono più”, ci si fa la guerra perché un posto all’asilo o una cura ospedaliera fanno la differenza tra chi sta a galla e chi affonda nel baratro dell’esclusione sociale. Dopo averci raccontato che ognuno era imprenditore di sé stesso, che la competizione avrebbe reso tutti più ricchi, che il welfare era assistenzialismo, ognuno di noi è rimasto solo a guardare la propria esclusione come una sconfitta personale, come il risultato della propria incapacità o inadeguatezza. Così, invece di organizzarci insieme, andiamo dallo psicologo.
Intanto, nelle periferie scoppia la guerra. Non valgono le statistiche e non valgono neanche le lezioni di storia, che parlano dell’Italia come un paese da cui sono partiti decine di milioni di migranti in cerca di fortuna. Conta solo la sensazione di sprofondare, solo l’impotenza. Invece di chiedersi dove sono quei soldi che non ci sono più per lo stato sociale, è più semplice accanirsi con chi compete con noi per quello straccio di sostegno pubblico ancora in piedi: gli immigrati. È più semplice prendersela con loro, perché la manovalanza dello spaccio e di altre attività illecite sono loro, gli ultimi degli ultimi di una filiera economica “informale” che in Italia prospera grazie alle organizzazioni criminali più importanti del mondo. E prima dell’arrivo di questi disperati come facevano a spacciare cocaina nei viali? Con altri disperati. Non importa il colore, non importa l’accento. Sono disperati, pronti a qualsiasi cosa per strappare il loro pezzo di benessere. Uomini e donne che fanno comodo alla malavita organizzata tanto quanto all’economia “legale”, che può contare su una massa ricattabile di lavoratori abbassando così, per ovvie leggi di mercato, lo stipendio di tutti.
L’unica soluzione adottata finora è stata di impedire l’arrivo di queste persone a costo di appaltare veri e propri campi di concentramento fuori dai nostri confini, in Libia e domani probabilmente in Niger. “Aiutiamoli a casa loro! Padroni a Casa nostra!” Slogan semplici e comprensibili. Ma spesso la realtà è un po’ più complicata delle ricette che ci vengono fornite da imbonitori televisivi o da social network.
A fronte del numero di nigeriani arrivati in Italia e in Europa, ad esempio, nessuno o quasi si preoccupa di spiegare la cinica politica di sfruttamento e devastazione ambientale portata avanti dall’italianissima Eni in quel paese, per esempio. Nessuno che spieghi il ruolo dell’Italia nello sversamento di rifiuti tossici in Somalia, o degli interessi italiani ed europei che costruiscono il nostro benessere e il loro essere terzo mondo. In quei corpi ammassati sui barconi, non riusciamo a vedere i nostri nonni, i nostri padri che sono andati negli Stati Uniti, in Argentina, in Germania, in Belgio. Questo riconoscimento sarebbe un problema per chi prospera sul lavoro nero, sullo sfruttamento. È meglio fomentare una guerra nei quartieri poveri, mettere in competizione ultimi e penultimi per quello che sarebbe dovuto a tutti. E allora si rispolverano arnesi vecchi come il fascismo, il razzismo, che fingono di opporsi al “sistema” mentre ne sono una stampella indispensabile.
Per chi, come noi, sta costruendo l’esperienza di Potere al Popolo, è evidente che ci sia un’emergenza sicurezza, un’emergenza sociale grave ed è altrettanto evidente che gli stranieri non ne siano la causa. Non si tratta di essere buoni o buonisti ma, banalmente, per risolvere un problema bisogna guardarne le cause, non le conseguenze. La causa della presenza di tanti migranti in Italia è la stessa che ci ha reso più poveri qui. Balliamo tutti la stessa danza infernale. E ora, noi occidentali e “civilizzati” siamo di fronte a un bivio. Possiamo scegliere di rimanere schiavi di lusso (un lusso sempre più precario…) all’interno di una fortezza che è destinata a crollare sotto il peso delle sue stesse ingiustizie, oppure uscire dalla competizione, dall’individualismo, dall’isolamento e lottare insieme contro chi orchestra la danza infernale. Le risorse per vivere tutti degnamente ci sono, basterebbe riprendersele da chi vive a sbafo e ride di noi, che stiamo qui sotto e ci azzanniamo, ci prostituiamo per un tozzo di pane.
Ma come ci riprendiamo quello che ci hanno tolto? L’unica possibilità è organizzarci, tutti insieme, per tornare in possesso dei nostri territori, dei nostri bisogni, delle nostre necessità. Avere il coraggio di scegliere una società con meno oggetti e più relazioni, meno ore di lavoro e più garanzie. Nessuno lo farà per noi, non esistono uomini della provvidenza. Gli unici stranieri sono quelli che vedono nelle nostre vite, nei nostri paesaggi, perfino nei nostri affetti, solo un’occasione per fare affari. Dobbiamo iniziare una lotta per decolonizzare tutti i territori, a Nord e a Sud del Mediterraneo, dalla dittatura del Mercato e per l’autodeterminazione dei popoli. Una strada lunga e difficile, sì. Ma dobbiamo deciderci a partire.