di Igor Micciola
Il 21 novembre Filippo Giardina sarà a Parma. Lo spettacolo che porta allo Splinter Club (ex-Titty Twister), si chiama “Lo Ha Già Detto Gesù”. Perché faccio pubblicità a un evento dedicandogli addirittura un articolo? Domanda più che legittima visto che, nonostante Giardina sia molto famoso nell’ambito della stand up comedy italiana, non stiamo parlando di chissà che notizia. È vero, vi sto invitando a riempire il locale mercoledì prossimo. Ma il motivo per cui sto qui a scrivere è che almeno la metà di chi ora mi sta leggendo, si incazzerebbe, si offenderebbe, forse fino a provare disgusto in certi momenti dello spettacolo, se accettasse l’invito. E questa è una consapevolezza per me molto recente che fatico a metabolizzare. Guardando gli spettacoli di Giardina, rigorosamente in streaming, oltre a ridere di gusto da solo davanti al pc, mi sono sempre sorpreso per il valore artistico enorme che mi veniva naturale attribuirgli. Per me era pacifico: Giardina (ma non solo lui) è un grande e la stand up italiana da qualche anno comincia a regalare gioie. Invece no. A quanto pare è un’affermazione tutt’altro che pacifica. E faccio fatica a spiegare perché: il fatto è che credo sia doveroso provare a spiegarselo, perché parliamo di apertura mentale, cultura e soprattutto si tratta di affrontare le contraddizioni dolorose interne al cervello collettivo.
Forse si possono riprendere le parole dello stesso Giardina per dare un’idea di cosa sia la stand up anche a chi non ne sa niente, andando oltre l’etimologia inglese per cui l’attore è in piedi (da qui “stand up”) su un palco, da solo e con un microfono. Oltre che per i suoi spettacoli, infatti, il comedian romano è famoso per aver fondato Satiriasi, un progetto cui hanno aderito altri sei attori (tra cui i più noti sono Giorgio Montanini e Saverio Raimondo) e dal quale per molti addetti ai lavori ha inizio una nuova era per questo genere di comicità in Italia. Il progetto si basa su un Manifesto scritto da Giardina in 15 punti. Ne riprendo alcuni. «La risata è il mezzo e non il fine. Niente travestimenti, si entra col proprio nome e cognome, un’asta, un microfono e il proprio bagaglio di vissuto. Non si fanno giochi di parole a meno che non siano frutto di uno studio tale da giustificarne il senso. Non tutti i milanesi corrono, non tutti i romani sono cafoni, non tutti i napoletani sono furbi, non tutte le suocere sono cattive. Il populismo e il parlare alla pancia delle persone creano grasse risate e facili consensi ma uccidono la qualità dello spettacolo. Se il pubblico è già d’accordo con quello che stai per dire forse non c’è bisogno che tu lo dica». L’ultimo è forse il più significativo, ma in ogni caso mi pare chiara la differenza con il cabaret o la comicità cui ci hanno abituato Zelig o Colorado Cafè, fino ad arrivare alle parrucche, i tormentoni e le imitazioni di Crozza. Con questo, però, non voglio dire che siamo stronzi se ci capita di ridere a una battuta di Checco Zalone, ma semplicemente che sarebbe giusto riconoscerne i limiti e magari provare ogni tanto a seguire qualcosa che va oltre le proprie aspettative.
Infatti, la domanda che mi pongo non ha a che fare con il terreno scivoloso delle definizioni. Ed è: perché proviamo un sincero fastidio invece di ridere, quando la battuta è dissacrante rispetto a un tema che sentiamo importante? È evidente che non mi riferisco al vecchio trombone bigotto che voterebbe Dc se solo ci fosse ancora, e che si scandalizza per parole come “sborra”. A lui lasciamo volentieri il Bagaglino, perché il benpensante si rifugia nella forma, ridotta a formalità diffusa, proprio per non pensare. No, mi riferisco a quei momenti in cui ci rifiutiamo di seguire il ragionamento razionale con il quale la stand up di solito rovescia il luogo comune. Magari perché non sopportiamo che si usi la parola “negro” o “puttana”, oppure perché non troviamo divertente l’affermazione “impariamo dai pedofili”, anche se questo non è il messaggio che si vuole trasmettere e serve solo da sponda per l’effetto comico. Il paradosso è dire che non fa ridere, quando in realtà siamo noi a rifiutare di seguire il filo logico suggerito, cosa che ci permetterebbe di cogliere l’effetto comico, perché non accettiamo quelle parole o che si tenti di far ridere parlando di un certo tema. Senza se e senza ma. E dire che andando oltre il primissimo livello di lettura, se non votiamo Lega o Forza Italia, si scoprirebbe che le posizioni da cui parte uno come Giardina sono in tutto simili alle nostre.
Forse per darsi una risposta degna di questo nome servirebbe uno psicoterapeuta. Ma trovo sinceramente preoccupante incarognirsi, e confesso che è successo anche a me, perché non permettiamo scherzi su un determinato argomento. Non stiamo parlando di prendere per il culo una platea di ex-partigiani, appena finita la guerra, sulla morte dei loro cari. La satira non è cattiveria gratuita e di sicuro per fare stand up non basta la provocazione. Se, però, sentiamo un’affermazione che solitamente ci farebbe rabbrividire, detta su un palco da un tizio con il microfono in mano, non dobbiamo reagire come se l’avesse detta la Cavandoli. Dovremmo come minimo dargli il beneficio del dubbio, cercando di capire dove vuole andare a parare. E proprio quando ci sentiamo presi in causa dal comico, che quasi pensiamo “ma questo ce l’ha con me?”, è lì che dovremmo smettere di fare i talebani, senza assecondare la vergogna o il senso di colpa che portano al rifiuto. Perché scherzare su quanto crediamo ci sia di più sacro, non vuol dire sminuirlo né tanto meno tradirlo o cancellare improvvisamente l’identità che faticosamente ci siamo costruiti. Significa liberarsi da paletti e limiti che a volte ci imponiamo da soli e che più spesso abbiamo accettato di applicare passivamente.
Ecco, mercoledì liberiamoci e andiamo a ridere sguaiatamente di noi stessi. Magari è la volta buona che, togliendoci i panni del censore inflessibile pronto a puntare il dito, ci scopriamo meno intolleranti e più coraggiosi.