di Marco Severo
Ieri, domenica 7 aprile, in borgo del Naviglio si è svolta la commemorazione di Antonio Cieri, anarchico, Ardito del popolo e combattente antifascista sulle Barricate di Parma del 1922 e a difesa della Repubblica spagnola nel 1936. Nella piazzetta dell’Avèrta, davanti alla lapide che lo ricorda, posata alcuni anni dalle organizzazioni anarchiche, si sono alternate le voci di Massimo Franzoni, in rappresentanza del Gruppo Anarchico A. Cieri e dell’Unione sindacale italiana (USI), e Marco Severo, per il Centro studi movimenti e l’Associazione italiana combattenti volontari nella guerra di Spagna (Aicvas). Di seguito pubblichiamo l’intervento di Severo [ndr].
Siamo tutti un po’ anarchici. Facile esserlo, dopotutto. Evitiamo di guardare la televisione, di usare l’auto, di andare a votare. Mettiamo “mi piace” ai gruppi per una scuola alternativa e cresciamo figli non omologati. Siamo iscritti a un Gruppo di acquisto solidale e se proprio, per sciagura, ci capita di far la spesa all’Esselunga, compensiamo l’infrazione promettendoci di dire due parole, un giorno di questi, a quel caporeparto nato stronzo con il completino gessato che assilla i poveri commessi chinati a impilare gli stracchini.
E tutto ciò, se proprio non ci appaga fino in fondo, quantomeno ci fa sentire diversi e ribelli, forse anche un po’ migliori degli altri, di quelli che ancora guardano i talkshow in televisione e leggono “Repubblica”.
Siamo diversi e un po’ anarchici, noi. Nutriamo un senso critico e coltiviamo autodisciplina, non obbediamo né comandiamo. In fondo amiamo il genere umano di un amore tutto nostro (tranne i capireparto dell’Esselunga, s’intende). La sera leggiamo due pagine di Chomsky e poi scriviamo un post beffardo su Priamo Bocchi prima di andare a letto sereni, persuasi d’essere anarchici abbastanza.
Poi però arriva il 7 aprile. E il 7 aprile, ogni anno, ricordiamo l’anarchico Antonio Cieri, uno che alla nostra età aveva vissuto almeno due delle nostre vite abbastanza anarchiche. Anzi, alla nostra età Antonio Cieri neppure era arrivato, morto nel 1937 in Spagna, a Huesca in Aragona, in guerra contro il nazifascismo e contro ogni forma di sopraffazione dell’uomo sull’uomo. Aveva 39 anni e, in quei 39 anni, Cieri Antonio da Vasto, Abruzzo, cittadino del mondo, aveva messo in fila molti fatti accompagnati da rare parole.
L’anarchismo di Cieri era talmente aderente alla sua condotta da non richiedere elaborazioni né teoriche né formali, e neppure dispendio di tempo. Alla strategia politica egli aveva anteposto la rivolta esistenziale, l’urgenza dell’iniziativa. L’anarchismo di Cieri fluiva con la vita, quel che andava fatto si faceva, così nella Grande guerra come nell’Oltretorrente a Parma e sui contrafforti dell’Aragona contro la reazione del generale Franco.
La medaglia di bronzo che l’anarchico si ritrovò appuntata al petto dopo la Prima guerra mondiale non era stata certo un suo obiettivo, non si corre sotto i colpi di mortaio per ottenere il plauso dello Stato borghese. Se nel 1918 Cieri il telegrafista fila senza calcolo sul ciglio sdrucciolevole della Storia, infatti, è perché l’anarchico non conosce altre vie che non siano l’azione diretta e la responsabilità personale. Lo Stato borghese, quello, faccia pure lo Stato borghese, elargisca medaglie per poi schedare, punire, reprimere e licenziare.
Cieri il ferroviere, nel 1920, nei fuochi della rivolta ad Ancona, non se ne sorprende come non se ne stupisce più tardi, a Parma nel 1922 sulle Barricate degli Arditi del popolo, allorché, anzi, le istituzioni formali calano finalmente la maschera per svelare le proprie sembianze mediante la violenza fascista.
Le due vite di noi abbastanza anarchici, che stanno dentro quella sola di Antonio Cieri, fluttuano diluite nella recita propria della società dell’immagine. Va fatta la tara per scremarne la sostanza dall’affettazione. Diciamo, scriviamo, ci sgoliamo e mangiamo le verdurine del Gruppo di acquisto solidale.
Al contrario, le poche fotografie di Antonio Cieri non ne dissipano l’energia in vanità estetiche. Non concedono nulla al cliché dell’anarchico antagonista. Cieri in giacca e cravatta, bello ordinato, si accende appena di un sorriso educato, forse malinconico. Non parla neanche con le immagini, Antonio Cieri.
Dopo Parma, licenziato dallo Stato che lo aveva esaltato, Cieri con la moglie Cleonice Garulli e il figlio Ubaldo ripara in Francia. Tra i primi nel fare, Antonio partecipa alle manifestazioni a sostegno di Sacco e Vanzetti e alle azioni clandestine contro l’autoritarismo in Italia e in Spagna.
Poi nel luglio 1936, mentre gli stati democratici e l’Unione sovietica appaiono incerti nel sostegno alla repubblica iberica aggredita, Cieri e gli anarchici escono ancora una volta dalle foto in giacca e brillantina e scattano in avanti. Sono i primi a partire per il fronte spagnolo. Essi non conoscono calcoli di sponda, non obbediscono a gerarchie politico-militari o a remote burocrazie statali. Cieri e gli anarchici sono liberi da sovrastrutture che non siano, possiamo dire, quelle del buon senso e del buon cuore. Non chiedono il permesso, non sopravanzano nessuno. Lasciano indietro ciò che intralcia la naturale manifestazione della coscienza umana e partono.
A luglio, nella Colonna Ascaso della Spagna democratica e rivoluzionaria, è già costituita la sezione italiana guidata da Camillo Berneri insieme al repubblicano Mario Angeloni e al giellista Carlo Rosselli. Antonio Cieri ne sarà un punto di riferimento fino alla primavera 1937, al 7 aprile giorno della sua morte nel corso di un’azione militare a Huesca.
Cieri muore con la stessa fluida leggerezza con la quale è vissuto. Non lascia dette frasi memorabili né teorie che pretendano di fare scuola. La sua testimonianza sta nella memoria di ciò che ha fatto, il dire di esserci quando serve. Anzi, neanche il “dire”: il farlo e basta, con una facilità che insieme è ingannevole e di stimolo. Ingannevole perché l’anarchismo esistenziale leggero e incisivo di Cieri è oggi ineguagliabile per ragioni politiche e sociali. Di stimolo perché proprio l’autonomia d’azione di quell’anarchismo che non aspetta ordini se non quelli del proprio sentire torna, forse inaspettatamente, a coincidere oggi con la matrice del nostro anarchismo dell’“abbastanza”.
Se è vero infatti che le condizioni ideali e di contesto del tempo di Cieri sono oggi irriproducibili per mille storiche ragioni, è altrettanto vero che la società liquida nella quale galleggiamo in questa porzione di ventunesimo secolo, sciolta di per sé da logiche gerarchiche e alimentata da un evidente individualismo di riflusso, le azioni più plausibili di contrasto alla sopraffazione e allo sfruttamento sono esattamente quelle che appaiono svincolate da ordini di scuderia come le microrivoluzioni dei Gruppi di acquisto solidale, dei comitati social per una scuola alternativa, delle testimonianze nella didattica e nell’educazione, nell’esempio diretto di chi fa cultura e tiene in vita il pensiero critico e non conforme: piccola potente barricata tascabile e personale che, tutto sommato, davvero ci consente di dire che, almeno un po’, anche noi siamo oggi come Antonio Cieri.