di Sante Lapertura
A partire dai grandi scioperi per il clima del 2019, e ancor più dopo la presa di coscienza delle cause ambientali della pandemia di Covid-19, sembra che la transizione ecologica sia ovunque. Se da un lato l’Unione Europea, con magniloquenza degna di miglior sorte, ne fa l’architrave della propria strategia di rilancio, dall’altro i Governi si contendono la Palma d’oro dell’annuncio più roboante (ma subito disatteso, s’intende). Nei circoli confindustriali, poi, l’entusiasmo si contiene a stento: “Finalmente, dopo tante chiacchiere, si passa all’azione!”.
A conferma di questa ‘nuova’ fase del chiacchiericcio verde arriva ora a Parma la Green Week (3-5 maggio), così descritta dalla curatrice Alessandra Pizzi: “Parma si candida a diventare la capitale italiana della Green Economy grazie ad un’azione corale che ha visto impegnati singoli imprenditori e l’Unione Parmense degli Industriali e a una tradizione di attenzione ai temi della sostenibilità ambientale e sociale che le imprese di questo territorio hanno sviluppato da tempo”.
I maligni potrebbero obiettare che la pessima qualità dell’aria e la drammatica crescita del consumo di suolo non depongono a favore della sbandierata ambizione. E forse qualche ragione l’avrebbero. Noi, però, siamo generosi: ci accontentiamo di notare che una rapida ricognizione storica suggerirebbe di smorzare tale stato di esaltazione. Infatti, è per lo meno dal 1992 – anno del famoso Summit della terra di Rio de Janeiro – che sotto l’egida delle Nazioni Unite i vari Paesi legiferano all’interno di una strategia che possiamo definire transizione ecologica dall’alto. L’idea-forza che la sorregge è tanto semplice quanto dirompente: non è vero, come si era pensato in precedenza, che protezione ambientale e crescita economica debbano escludersi a vicenda; anzi: la green economy propriamente intesa è in grado di internalizzare il vincolo ecologico non più come ‘blocco’ dello sviluppo, bensì come ‘fondamento’ di un nuovo ciclo di espansione.
Il dibattito, in quel frangente, partiva da una granitica certezza: senza mettere le imprese al centro della scena questa partita, la cui posta in gioco è la sopravvivenza del genere umano, non può essere vinta. In altre parole: solo se la sostenibilità saprà andare a braccetto con la redditività degli investimenti il mondo potrà sperare di non sciogliersi sotto i colpi dell’aumento delle temperature. Questo, non altri, è l’elemento essenziale del Protocollo di Kyoto, firmato nel 1997.
Fin dall’inizio, la promessa di questa transizione ecologica – applicata al riscaldamento globale – era ambiziosa ed esplicita: la ‘mano invisibile’ del mercato saprà ridurre le emissioni di gas climalteranti e, allo stesso tempo, garantire alti margini di profitto. Ora, non c’è dubbio che un quarto di secolo abbondante sia un lasso di tempo più che adeguato per valutare l’efficacia di una politica pubblica, a maggior ragione se si parla di crisi ecologica e si accetta l’ovvia considerazione che gli obiettivi vadano raggiunti con urgenza. Chiediamoci dunque: sono diminuite le emissioni?
Questo grafico, tratto da The Climate Book (a cura di Greta Thunberg) ed elaborato su dati Ipcc, risponde con eloquenza: no.
Sulle ragioni di questa débâcle si è molto discusso, e si continuerà a farlo – non alla Green Week, però. A prescindere da questo, rimane il fatto che il risultato – ciò che più conta – è lampante: mettere il mercato e le imprese al centro della transizione ecologica non conduce né a un aumento della sostenibilità ambientale né a una riduzione delle emissioni di gas climalteranti. Anzi: le fa aumentare ulteriormente!
Vogliamo dunque essere chiari: oggi, nel 2023, riscaldare la minestra della green economy è mossa antiquata ancor prima che sbagliata, impraticabile e – soprattutto – nociva. Dietro la sfacciata operazione di greenwashing che l’eventificio della ‘sostenibilità a parole’ mette in scena a Parma si coglie la pigrizia di chi non sa sottrarsi alla coazione a ripetere, l’ottusità di chi non vuole accettare la propria epocale sconfitta, la pervicacia di una generazione bollita che tuttavia non cede il passo.
Tutto qui, dunque? Dobbiamo limitarci a criticare? A spiegare a chi ha fallito che sarebbe ora di cambiare registro? Nient’affatto! Possiamo per esempio guardarci attorno, dare voce e supporto alle tante sperimentazioni sociali che intendono davvero affrontare la crisi ecologica e portare il nostro piccolo contributo alla costruzione di un nuovo immaginario. Potremmo chiamarlo transizione ecologica dal basso.
Partiamo da una presa d’atto: l’ideologia che verrà celebrata alla Green Week ha potuto stabilire una compatibilità – di più: un’affinità elettiva – tra protezione ambientale e crescita economica solo a condizione di relegare il movimento sindacale – con la sua funzione sociale di contrasto alla diseguaglianza – dietro le quinte. Il soggetto della transizione ecologica dall’alto è l’imprenditore di sé stesso: sfrontato, illuminato, smart. Se andrete alla Green Week, ne vedrete sfilare a iosa; segni particolari: dichiarazione roboanti e risultati zero. La quintessenza del bla bla bla denunciato da Greta Thunberg.
La transizione ecologica dal basso fa l’esatto contrario: lega le ragioni dell’ambiente a quelle del lavoro. Scommette, cioè, su questa tesi: solo una società più egualitaria può affrontare con speranza di successo la crisi ecologica. Di più: solo mettendo al centro il punto di vista di lavoratrici e lavoratori le politiche ambientali potranno funzionare efficacemente.
Come dicevamo, gli esempi sono tanti e vengono da ogni parte del mondo. Per ragioni di spazio ne riportiamo uno solo, quello della ex-Gkn di Campi Bisenzio.
La vicenda è piuttosto nota: il 9 luglio 2021 il fondo finanziario Melrose decide di delocalizzare una fabbrica in salute e comunica ai lavoratori che, come sempre in questi casi, a loro toccherà il ruolo di agnelli sacrificali. Lo stesso giorno, quegli stessi lavoratori comunicano al fondo che a questo giro le cose andranno diversamente: si radunano in fabbrica per dare vita a un’assemblea permanente e preparano il ricorso per licenziamento illegittimo che di lì a poco vinceranno.
Fin qui, la storia bellissima – infrequente ma non proprio originale – di una lotta operaia in difesa dei propri interessi.
Ma lo straordinario doveva ancora accadere: a partire dall’autunno 2021 il Collettivo di fabbrica cerca attivamente un terreno di raccordo con i movimenti per la giustizia climatica (Fridays for Future, Extinction Rebellion, Collettivi di Ecologia Politica, movimenti territoriali contro le grandi opere inutili e dannose). Con fatica, pazienza e tanta buona volontà da parte di tutte e tutti, la sfida viene coronata dal successo: nel corso del 2022 si susseguono le manifestazioni di convergenza (a Firenze, Bologna, Napoli) e prende corpo l’idea che solo una società più giusta ed egualitaria possa essere realmente sostenibile. In una parola: cresce la consapevolezza che la transizione si debba fare non sulle teste di chi lavora, bensì con esse. Grazie all’impegno innovativo delle nuove generazioni, non a suo discapito. A favore del 99%, non contro. Attingendo risorse da chi ha fallito arricchendosi (l’1% e poco più) affinché la società tutta possa finalmente divenire ‘ecologica’.
La storia della ex-Gkn non è ancora conclusa: il crowdfunding ‘Gkn for Future’ – sostenuto da Fff, Arci e Banca Etica – è ancora attivo per qualche giorno ma ha praticamente doppiato l’obiettivo iniziale (75.000 euro). Questo enorme risultato darà respiro al tentativo operaio di costruire una fabbrica pubblica e socialmente integrata, capace di portare la sostenibilità dal regno delle belle idee a quello della realtà effettiva. Perché il punto è proprio questo: i paladini della Green Week hanno governato per decenni la transizione, fallendo; semplicemente, non sono stati all’altezza del compito che si erano auto-assegnati. Nessun rancore, per carità; ma si facciano da parte, magari imboccando l’umile sentiero dell’autocritica (la Green Week sarebbe stata perfetta per questo).1 D’altro canto, le lavoratrici e i lavoratori della ex-Gkn rivendicano giustamente per sé il ruolo di ‘classe dirigente’: hanno visione, radicamento, entusiasmo. Inoltre, e non ci pare un dettaglio, dicono la verità. Questo è il tempo della scelta, e noi non abbiamo dubbi.
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1 A scanso di equivoci, converrà precisare: la transizione ecologica dal basso avrà bisogno delle imprese: come ogni altro soggetto, ognuno dovrà fare la propria parte (tra l’altro, nel pantano della green economy c’è chi ha fatto meno peggio di altri). Ciò che contraddistingue questa strategia non è un gesto di esclusione (‘fuori i padroni!’) bensì la rettifica di una scommessa sbagliata: si pensava che bastasse l’impresa-centrismo per risolvere i problemi ambientali, e così – purtroppo – non è stato. Non abbiamo dubbi che imprenditrici e imprenditori seri vorranno mettere i propri talenti al servizio di un nuovo orizzonte di giustizia e sostenibilità: forse guadagneranno un poco di meno, ma vivranno in una società più felice. Non è forse la buona vita l’obiettivo più desiderabile di tutti?