di Milo Adami
«La mente moderna – scrive il filosofo Franco Bifo in Il terzo inconscio, Nottetempo 2022 – è stata modellata dalle aspettative della crescita illimitata, dell’espansione del consumo illimitato» e questa oggettiva verità, così introiettata dentro di noi, dopo la pausa pandemica in ogni settore sembrerebbe aver ripreso vigore (con evidenti ripercussioni sugli equilibri nervosi, energetici e climatici) ma è a proposito delle ricadute sull’offerta culturale (o sul concetto di cultura) che vorrei qui soffermarmi, analizzandone le conseguenze sociali.
Concentrare più appuntamenti culturali in un tempo ristretto, secondo la logica della massima produttività, appare oggi come il modello dominante con cui si pensa, offre e consuma cultura, soprattutto in concomitanza con i periodi estivi quando l’eventismo ribolle frenetico. È l’idea della settimana della Moda, del Camper, del Food Track, di una fiera che passa, vende, spreca e riparte senza valorizzare i prodotti, il valore delle materie prime, i suoi lavoratori, il loro benessere, le loro paghe, preoccupandosi solo del consumatore che entra, morde e fugge. Cosa resta di tutto questo? Cosa lascia? A chi giova? Quanto costa? Il prodotto deve abbondare, costare poco e rompersi presto per essere sostituito, provocare nel consumatore un senso temporaneo di appagamento per poi venire rimpiazzato da un nuovo desiderio. Il frigorifero deve essere sempre pieno, l’offerta multicanale abbondare; la cultura dovrebbe essere protetta da simili corrosivi ragionamenti di mercato, forgiati sulla prospettiva della massima redditività, eppure ne è indissolubilmente segnata.
Quali sono i criteri che oggi decretano il successo di un appuntamento culturale? Rapidità d’azione, concentrazione dell’offerta in un tempo ristretto più visibile e valutabile, efficacia comunicativa d’impatto, stupore, spettacolarizzazione della proposta, spettacolarizzazione degli alti numeri (300 ospiti, 100 appuntamenti in una settimana, record di spettatori, etc.., etc….). Ma quello della Cultura in Italia è un settore che non può reggere se tirato a questi ritmi, è composto per lo più da lavoratori a partita iva che conducono una vita precaria in termini di salario e tutele lavorative, ora anche spremuti e stressati dalla massima competizione e dal terrore del flop. In questo tutto bulimico un po’ pazzo e un po’ schizofrenico, in chi della cultura fa un mestiere si insinua un senso profondo di frustrazione e incertezza; la sua azione, il frutto del suo lavoro appassionato, nell’abbondare dell’offerta si perde, non incide e nel tutto si perde, non restando che il tempo di un cerino. «Who’s the next!?» Ti urlano i cassieri nei supermercati newyorkesi.
Ancora Bifo ci viene in soccorso nel suo libro: «Poiché il paradigma concettuale del capitalismo si fonda sull’espansione, è necessario costringere la società a inseguire continuamente nuovi consumi, ad accelerare continuamente il ritmo di produzione, e sottoporre la terra a sempre nuovi estrattismi» (p. 41). La logica estrattiva descrive bene il modo in cui oggi la proposta culturale, schiacciata dalla super offerta, dal massimo rendimento e il minimo costo, si abbatte consumando ed esaurendo rapidamente le energie dei suoi lavoratori e le risorse di tempo libero (poco) che sempre più stanchi ed esauriti cittadini hanno a disposizione. Nel bel mezzo del tutto, lo spettatore “consumatore” collassa, incapace di distinguere il senso di ciò a cui sta partecipando, salta da una proposta all’altra con la stessa indifferenza con cui si aggira in un ipermercato, sommerso da decine di marche che gli offrono lo stesso prodotto, oppure, peggio, desiste, rinuncia, consegnandosi nelle mani rassicuranti del suo televisore HD: «L’accelerazione dell’iperstimolo ci spinge oltre la soglia della rottura: a quel punto il respiro singolare divine frenetico, la gioia orgasmica diviene irraggiungibile e il panico si impadronisce del corpo e della coscienza» (p.40).
Non sarebbe pertanto più sostenibile percorrere una forma di ecologia culturale? Preoccuparsi di costruire iniziative più a misura, continuative e diffuse nel lungo periodo, che tutelino la professionalità dei lavoratori coinvolti senza stressarne il rendimento e soprattutto che rispettino maggiormente il tempo delle persone? Non sarebbe più efficace preoccuparsi di diluire la proposta culturale durante tutto l’anno in modo pervasivo e diffuso? Tuttavia, quel che non si vede non si vende e la fiera, la festa è il modo più efficace per incassare un vantaggio politico ed economico, un bonus di visibilità, soprattutto quando la partecipazione agli “eventi” viene offerta gratis al cittadino.
Forse, come suggerisce Bifo, non resta che augurarsi che un vero collasso si produca, che si verifichi una «psico-deflagrazione» (e direi che ci siamo vicini), che le persone smettano del tutto di partecipare per aiutarci a ricalibrare il nostro concetto di cultura, recuperando un senso più umano, sostenibile, lento, progressivo, comunitario, libero dai successi di marketing e dagli usi strumentali e “brendizzati”. Occorre uno sforzo immaginativo e creativo per uscirne, altrimenti la funzione della cultura perderà progressivamente di senso. Cultura dovrebbe essere quel cammino che affianca un cittadino fin dall’infanzia fornendo quegli strumenti creativi, immaginifici, emozionali, spirituali, solidali per meglio comprendersi come singolo e comunità. Questa impronta, questa fame, dovrebbe accompagnarlo ogni giorno, ogni momento, non solo essere concentrata in un estate, in un weekend, in una settimana, in una tre giorni, stretta nello spazio di una kermesse o affogata tra mille altre proposte.
L’interesse pubblico può fare molto per ristabilire un criterio di senso, proteggendo e tutelando i lavoratori della cultura e dello spettacolo da un lato, e i cittadini/spettatori dall’altro. Il privato può essere indirizzato (come accade in certi casi) premiando e sostenendo programmi culturali di lungo corso che incidano maggiormente nelle profondità del tessuto sociale più fragile (si pensi ad esempio alle nuove generazioni, alle scuole, ai quartieri più isolati, alla province dove inserirsi è più complesso).
Al momento sembrerebbe che il cervello collettivo abbia, scrive Bifo: «perduto la capacità di comprendere quel che sarebbe conveniente, e soprattutto la capacità di perseguirlo» (p. 52), auguriamoci che presto si ravveda, “preferendo di non” (I would prefer not to) ricordano il celebre Bartleby lo scrivano di Herman Melville. Signor Bifo, in definitiva, lei cosa suggerisce?: «Quel che possiamo fare è solo questo: creare condizioni culturali che favoriscano la riorganizzazione delle relazioni sociali al di fuori della regola dello scambio. Cioè che favoriscano il criterio dell’utile e del frugale» (p. 129). Bene Bifo, proviamo! Del resto, parafrasando Raul Vaneghein (uno dei fondatori del movimento situazionista) non restano che due possibilità: andare avanti fino all’esaurimento, oppure operare una mutazione che ci renderà umani.