di Stefano Manici
Il clamore mediatico di questi giorni intorno alle risse da strada provocate da fantomatiche bande giovanili sollecita una riflessione urgente rispetto al tema “giovani”. Partiamo dalla parola giovani. Cosa intendono dirci i mass media ostentando titoloni da stadio che riguardano il mondo giovanile? Perché la narrazione sul mondo giovanile spesso rientra solo nella categoria della cronaca? Ci siamo mai chiesti cosa intendiamo con la parola “giovani”, senza cadere nella trappola delle facili generalizzazioni? Chi sono i giovani di Piazzale della Pace che organizzano risse e non vedono l’ora di scontrarsi?
Io penso di conoscerli, li osservo da anni, so che in mezzo a loro ci sono tanti ragazzi e ragazze che vivono nella dimensione parallela della marginalità sociale, ragazzi che chiedono di essere visti e che domandano aiuto, anche mostrandosi in quel modo. Sono “gli esclusi”, spesso respinti dalla scuola, con problemi sociali e familiari, ragazzi letteralmente ai margini, ma ragazzi, appunto, con tutta la loro voglia di protagonismo e la loro voglia di vivere. Cosa ci stanno dicendo, picchiandosi, trasgredendo, andando al di là dei limiti?
Ci chiedono attenzione, chiedono di poter contare qualcosa sullo scacchiere sociale. Da anni mi occupo di adolescenza, lo dico ben chiaro: esiste uno sguardo adulto giudicante, presente a livello sociale e anche nel mondo della scuola, luogo di importanza primaria in educazione, che non è capace di dialogare con il mondo giovanile e che rischia sempre più di allargare la frattura intergenerazionale che va componendosi.
È una sorta di postura adulta che non coglie ciò che davvero di più prezioso anima i nostri adolescenti; non vediamo che sono proprio loro a regalarci un incessante moto di r-esistenza: all’imbruttimento del reale, allo svilimento delle anime, all’imbarbarimento dell’odio, al rifiuto dell’Altro, allo sfacelo dell’economico.
La visione che propongo è un’istanza provocatoria per cambiare lo sguardo sui nostri ragazzi, uno sguardo che deve orientarsi verso le risorse del mondo giovanile, valutando i limiti come semplici incidenti di percorso generazionali e soprattutto come risorse da cui costruire.
Quanto e come è possibile costruire percorsi di senso e lavorare a contatto con le nuove generazioni? Vi sono strategie dedicate che possono fungere da strumenti significativi per attivare setting pedagogici innovativi con minori e adolescenti?
La lettura politica degli avvenimenti di questi giorni non può che soffermarsi su alcune questioni sociali: la narrazione che tende a nascondere, svilire e assottigliare le differenze socio-economiche che marcano l’appartenenza a determinati ceti sociali non restituisce un quadro che rischia di passare troppo inosservato. Le classi sociali esistono, in modo diverso dal passato, ma esistono; è inutile negarlo: ancora oggi nascere in una certa famiglia può determinare un certo tipo di istruzione, l’accesso al mondo del lavoro, l’ingresso in un contesto culturale stimolante. I ragazzi di Piazzale della Pace sono coloro che la destra nega e non tollera e che la sinistra elitaria degli ultimi decenni fa finta di non vedere, quasi incapace di stare al passo con i tempi. Quando accadono questi episodi con comportamenti violenti si assiste ad un teatrino mediatico nel quale l’atmosfera di fondo è pervasa da un senso di fastidio, quasi che l’esistenza stessa di questi ragazzi rappresenti un problema. Attenzione, però: se la violenza e la rabbia sono le espressioni tipiche di quei gruppi di ragazzi che in un’altra epoca avremmo definito sotto-proletari, la noia è la dimensione di quei gruppi più benestanti che spesso sfocia negli stessi comportamenti. Rabbia e noia, come gli antipodi di una società in crisi, sospesa tra povertà e opulenza, davvero sembra che il paradigma liberista non sappia regalare alternative.
Ciò che viene a mancare è l’equilibrio sociale affossato da una crisi strisciante che agisce sotto traccia e che mina il tessuto sociale nelle micro-componenti più fragili. Bisogna davvero addentrarsi nei condomini delle case popolari, nelle strade di periferia, nei bar pieni di giocatori ludopatici, nei Sert, nelle famiglie senza lavoro per scoprire quello che il filosofo Orfray definisce il mondo dei dannati, dipingendo la versione moderna dell’Inferno Dantesco.
Che fare? Mi permetto di suggerire alcune strategie di intervento, che cercano di dare una risposta pratica al problema.
Prima di tutto urge davvero un’effettiva attuazione realistica dell’accesso di tutti i ragazzi ai diritti di base, quelli decantati nella nostra Costituzione e che per certi versi nessuna azione politica è riuscita a tradurre in piena realtà dal dopoguerra ad oggi.
Occorre poi, formare equipe interdisciplinari di esperti dell’educazione, psicologi, educatori, docenti, gruppi di genitori, magari partendo proprio dalle scuole, con uno sguardo orientato alle possibilità dei territori.
E investire in progetti di educativa di strada, formare educatori giovani in grado di intercettare i bisogni e le esigenze dei gruppi giovanili; investire sulle cosiddette “figure di mezzo”, educatori che possono essere visti dai ragazzi come facilitatori e non solo come presenze adulte giudicanti.
Potenziare il mondo della formazione professionale con interventi a 360°gradi, prevedere percorsi fin dalla scuola secondaria di primo grado. La frammentazione sociale e la crisi economica influiscono anche sulla possibilità di migliaia di ragazzi di essere liberi di scegliere i propri percorsi di vita. Come è possibile ad esempio che 6 studenti su 10 degli istituti tecnici e delle scuole professionali vengano respinti al primo anno? Dove finiscono questi ragazzi?
Potenziare i progetti di educazione civica e di cittadinanza attiva, lavorare nella direzione di ri-contrattare i valori, che riesca a scardinare il modello culturale latente e dominate che comunica ai ragazzi successo, denaro facile, immagine. La società dell’immagine così come si è venuta a prefigurare negli ultimi decenni e che non sembra conoscere ostacoli non può corrispondere al bisogno di protagonismo delle giovani generazioni, sebbene la sua capacità di creare illusioni e sogni sia ben più persuasiva della capacità del mondo giovanile di riflettere criticamente sui propri bisogni reali. Urge ri-contrattare con il mondo giovanile quelli che sono i valori della convivenza sociale, che non possono anteporre l’esteriorità all’interiorità, il self all’help, l’artificiale all’umano. Bisogna sostituire l’Io con il Noi, anteporre la proprietà sociale alla proprietà privata, così come suggerisce nel suo ultimo ineludibile lavoro Thomas Piketty in Capitale e ideologia.
Insistere sui progetti di partecipazione attiva. Le esperienze oggi esistenti sono pressoché simboliche, ma questa mancanza di potere reale da parte dei ragazzi non può essere vista se non come emblematica del valore che diamo al loro contributo nella soluzione dei problemi e alla loro futura presenza come cittadini. Dunque se vogliamo che gli adolescenti e i giovani entrino con il loro stile nella realizzazione futura di un mondo che ci appartiene temo che dovremo fargli spazio.
Progettare interventi socio-aggregativi nei quartieri, in stretto contatto con le scuole dei quartieri, lavorando in sinergia di rete con il terzo settore, nell’ottica del concetto di educazione diffusa. Vi sono diversi interventi già presenti sui territori, bisogna scommettere sulla spesa sociale pubblica.