di Elisabetta Salvini
“Vorrei che la gente capisse che chi arriva non viene per portare via, ma per portare qualcosa di sé. Vorrei che ci si chiedesse il motivo per cui le persone scappano e migrano e che si imparasse che le culture che si mescolano sono un arricchimento e non un pericolo”. Parlava così Agitu Ideo Gudeta, e le sue non erano solo parole, lei faceva, costruiva, progettava, realizzava.
C’è una sua immagine dove, con un sorriso capace di cancellare ogni distanza, reggeva un cartello con scritto: “Vietato calpestare i sogni”. La trovo una delle più emblematiche per raccontare la sua storia e la sfida che ha lanciato a sé stessa e al mondo.
I contadini dai volti solcati e dai modi ruvidi, i montanari chiusi e diffidenti della valle dei Mocheni la guardavano con disapprovazione e ripetevano a denti stretti che non ce l’avrebbe fatta. Che si sarebbe arresa dopo una sola stagione. Perché fare la pastora è una vita dura. Non ci sono feste, vacanze, ponti, ferie. Ci sei solo tu, le capre e una natura superba che non regala nulla, ma si mette lì a disposizione. La sveglia suona sempre alle quattro e il giorno è fin troppo lungo, quando è cadenzato da un susseguirsi ininterrotto di cose da fare. Eppure Agitu diceva che il suo non era lavorare, ma contemplare. Contemplare la terra, rispettarne i ritmi, i colori, gli odori. Contemplare le capre, i prati e trasformare il latte in formaggio e il cibo in nutrimento da restituire alla valle. Perché tutto doveva essere a km zero, sostenibile, biologico, equo. Sembra una favola, un sogno bello. Tuttavia non è così.
Perché c’è chi quel sogno non lo ha solo calpestato, ma lo ha preso a martellate. Uno, due, tre, quattro, cinque volte, fino a ridurlo in un ammasso di sangue e carne a brandelli. Chi, non pago, quel sogno lo ha anche violentato, per possederlo e poi, attraverso l’eiaculazione, distruggerlo, eliminarlo del tutto.
Non importa chi sia stato, il nome del calpestatore di sogni, lo conosciamo bene e non abbiamo bisogno di alcun identikit. E sappiamo anche che i calpestatori non colpiscono il sogno, ma la donna che quel sogno lo ha vissuto e realizzato.
E più le donne sono in grado di realizzare il loro sogno, più rischiano di trovare sulla strada calpestatori violenti e incapaci di sopportare il successo, l’indipendenza, la libertà di chi, invece, vorrebbero avere al fianco come docile e remissiva compagna. Agitu ha pagato per la sua libertà, per il suo essere diventata lei stessa un sogno, un simbolo.
Era scappata dall’Etiopia nel 2010, quando il governo aveva emesso contro di lei un mandato d’arresto per terrorismo. La sua colpa? Protestare insieme ad altri compagni perché le terre rimanessero in mano ai contadini e non fossero svendute alle multinazionali. Questo era il suo sogno, vivere in un mondo sostenibile, conservare il territorio per lasciarlo alle generazioni future. E per realizzarlo, nella sua Etiopia, con coraggio e determinazione aveva denunciato l’accaparramento delle terre da parte di multinazionali e la siccità che costringeva le donne a faticare sempre di più. Aveva denunciato gli aguzzini del suo popolo – le banche, i governi conniventi e corrotti. In ogni intervista rilasciata non perdeva mai occasione per ricordare la lotta del suo popolo e per far conoscere le condizioni in cui oggi lavorano le contadine etiopi, costrette a turni massacranti e a paghe inaccettabili.
“Le donne rimaste sole, hanno dovuto mandare avanti intere comunità lavorando nei campi fino a 12 ore al giorno. Campi dove non c’è più una goccia d’acqua per la siccità tremenda che l’Africa sta soffrendo, e per i disequilibri ambientali che megaprogetti e fertilizzanti chimici stanno causando alla terra”.
È così che è diventata un simbolo di lotta, di Resistenza e di integrazione.
Eppure Agitu Ideo Gudeta non era un simbolo, ma una donna in carne ed ossa che ha sofferto, è scappata, ha lottato, ha studiato e ha sgobbato con il sorriso per costruire la sua azienda agricola “La Capra felice”. Una donna intelligente che sognava di ritornare nella sua Etiopia, da viva, non da morta.
Credo che se Fabrizio De Andrè fosse ancora vivo oggi scriverebbe per lei, come fece con La Canzone Marinella quando cercò di “reinventare una vita e di addolcire la morte” di una giovanissima donna, trovata morta sulle rive di un fiume. Perché c’è poesia nella vita di Agitu. Una poesia che viene dalla sua consapevolezza di donna, di contadina, di migrante, di attivista, di pastora. Una poesia costruita giorno dopo giorno dal sua fare politica. La politica bella, pulita, buona. Quella che è cura dell’ambiente, condivisione, accoglienza, integrazione. Quella capace di costruire comunità e sogni. La politica che sta dalla parte degli ultimi e che sa valorizzare le nostre risorse più preziose come l’acqua, la terra, le capre, il latte e il sorriso.
Sì, oggi De Andrè scriverebbe una canzone per raccontare la sua vita e non più per addolcirne la morte, quanto piuttosto per denunciare l’ennesimo femminicidio. L’ennesima violenza maschile, frutto di una cultura patriarcale che non conosce confine, etnie, colori della pelle, ma solo la prevaricazione sorda di un sesso che vuole a tutti i costi dominare sull’altro.