di Anna Giulia Della Puppa
“Capire – fare parte / capire di fare parte / non c’è altro / io – la mia porzione di cecità / io – la mia porzione di luce” (Carla Lonzi)
La scorsa settimana, alla libreria Chourmo che adoro e che mi trova a mio agio come il salotto di casa mia, lo scrittore Ivan Carozzi ha presentato il suo ultimo libro, L’età della tigre edito da Il Saggiatore. Il libro, a quanto mi è parso di capire dalla presentazione e da qualche stralcio letto sul posto, solo apparentemente parla del fenomeno della trap, per soffermarsi invece sulla vita di chi scrive e sulle sue riflessioni sull’epoca in cui vive, fatta di urbanità, adolescenti e di un precariato esistenziale, emotivo, materiale che l’autore, complice anche una congiuntura socio-anagrafica, non riesce assolutamente a cogliere; il tutto condito di riferimenti quasi ossessivi a questi “trappers” (che durante la presentazione vengono chiamati all’americana treppers) che entrano ed escono dal racconto in modo puramente funzionale all’io (narrante) dell’autore.
Mi è parso interessante, e al contempo stridente e fastidioso come, con la calma annoiata di chi non c’entra, l’autore abbia snocciolato quelli che sono gli aspetti meno interessanti di un fenomeno sociale che riguarda ormai la maggior parte dei giovani di oggi che incarna il loro registro espressivo e le loro proiezioni di vita.
Si è parlato quasi unicamente di Sfera Ebbasta, il cui faccione campeggiava su una gigantografia fuori dalla metro di Milano Moscova qualche tempo fa e della progettazione squisitamente commerciale della trap: un fenomeno di costume, studiato a tavolino per arricchire giovani arrivisti (con un passato di “lavoretti di merda” – la citazione è alta: Mark Fisher – che, se il pubblico non lo avesse saputo, contribuiscono al sentimento di precariato e alla volontà di rivalsa sociale. Ma va!?) e i loro scaltrissimi produttori. Si è parlato, in definitiva, di una generazione “senza storia e senza padri musicali”, svogliata, che guarda con astio le generazioni precedenti e da questi guardata con astio.
Si è poi tornati, ancora, stancamente, noiosamente, a paragonare la performance sanremese di Achille Lauro (banale, gretto, “fastiosamente osannato”) a un grandioso, “sempre sia lodato” David Bowie. E allora basta, mi sono detta. Lasciamo in pace questi ragazzini o, se proprio dobbiamo parlarne, impariamo a prenderli sul serio.
Ma andiamo con ordine. Premetto che, come l’autore de L’età della tigre ha ampiamente dimostrato, non serve ascoltare o godere la trap o anche solo Achille Lauro, per parlare di questo argomento o per ammirare la performance di quest’ultimo al festival di Sanremo: per quel che mi riguarda, un felice punto di non ritorno.
A chi scrive, infatti, non interessa quell’orizzonte musicale né il codice di valori che trasmette. Il discorso, se è possibile, non ha neppure nulla a che vedere con la qualità o col gusto musicale di questo o altri musicisti e, se la mettiamo sul piano “eh però Bowie…”, non c’è dubbio che la risposta sia: “Grandissimo Bowie. Come artista e come persona!”. Questo, però, è un discorso che non c’entra e non dice proprio niente.
Perché? Non c’entra perché i generi musicali sono un codice comunicativo e, come ogni codice comunicativo, hanno come interlocutori i parlanti di quel codice; nel nostro caso gli ascoltatori di quel genere musicale. La trap è, appunto, un genere musicale con il suo codice comunicativo e chi ascolta quel genere musicale decodifica quel codice. Aggiungo, è un codice comunicativo fatto per ragazzi giovanissimi e per giovanissimi intendo: già dagli 11 anni.
Ancor più interessante, la trap è un codice comunicativo fatto da ragazzi giovanissimi: la povertà dei mezzi di produzione musicale, infatti, permette a chiunque di fare musica attraverso un dispositivo cellulare e di rendere pubblico poi il suo lavoro su canali youtube. Grazie all’uso massiccio dell’autotune, un distorsore vocale, poi, le qualità canore vengono messe del tutto in secondo piano rispetto alla performance in sé, non facendo quindi distinzioni tra chi è più dotato o intonato e chi lo è meno.
È un codice comunicativo che, come il suo originale americano e ancor più il suo derivato francese da cui l’Italia ha attinto maggiormente, nasce e si costruisce nelle periferie e proprio da quell’archetipo prende e rielabora un linguaggio nuovo, fatto di parole troncate a metà che permettono (anche rispetto al rap classico) versi e rime inusitate ed eccentriche.
Gli autori, spesso di seconde e terze generazioni migranti, parlano del disagio dell’essere messi ai margini del sistema (e lo fanno in testi che mescolano le lingue di origine a quelle dei luoghi dove vivono: il francese all’algerino, l’italiano all’albanese), del non potersi permettere nulla e di come da questo nasca una grande rabbia e una volontà bulimica di soldi e successo.
E qui viene il punto sul quale interrogare me stessa: sono valori nei quali mi riconosco? Assolutamente no.
Ma io sono una privilegiata. Non perché “sono ricca di famiglia”, anche se sicuramente sono nata in un contesto più agiato di Achille Lauro, che viene dalla estrema periferia romana e ha vissuto la sua adolescenza tra l’abitare dentro una smart e la casa del fratello maggiore dopo aver chiuso i rapporti coi genitori (che pure erano avvocati), o di un qualunque altro trapper. Piuttosto, perché sono nata in un contesto familiare e sociale nel quale l’esistente veniva politicizzato e messo in discussione e nel quale mi sono stati dati gli strumenti per decodificare l’asse oppressiva di genere, razza e classe.
Mia madre e mio padre hanno lottato per fornirmi quegli strumenti, ma sarebbe miope non valutare il contesto sociale nel quale questo sforzo è esistito. Il famoso Sessantotto, infatti, è stato un’onda collettiva e non un corpo a corpo individuale. In questo sono stati molto più fortunati dei ragazzi di oggi, che nella disgregazione della post-politica sono costretti a ingaggiare, ciascuno individualmente, una battaglia all’ultimo sangue per la sopravvivenza della loro identità.
Sono privilegiata (adesso si dice “Boomer”) anche perché le condizioni sociali generali nelle quali ho vissuto io la mia adolescenza erano molto meno complesse di ora e sicuramente molto meno violente. Questo non mi ha risparmiata dalla violenza psicologica e dallo stupro, né dal disagio psichico e dai disturbi alimentari, ma questo fa parte della lotta personale – e di genere! – di ciascun* contro l’esistente ed è quello che personalmente mi ha portata al punk. E certo, la trap non è il punk.
Sono fenomeni culturali e sociali completamente diversi: rispetto al posizionamento nei confronti della società di massa che hanno, rispetto alla mediaticità, rispetto alla longevità…
Il codice della trap, quindi, è altro rispetto a quello del punk, ma non è molto diverso, comunque, in definitiva, da quella corrente dell’autonomia vecchia e nuova che, invece di pensare ad un cambio di paradigma sociale dal basso o alla necessità di vivere ai margini per porsi contro questo sistema, teorizza e teorizzava il lusso per tutti.
Detto questo, e quindi considerato che è un codice che non appartiene a molti di coloro i quali stanno leggendo, possiamo, ma questa forse è solo la mia deformazione professionale, cercare di capire antropologicamente cosa significa e cosa ha significato, all’interno di questo paradigma di senso, che vedremo essere infarcito di una violenza sessista machista e priva di ogni remora, l’esibizione di Achille Lauro al festival di Sanremo.
Per cominciare, è da evidenziare come lo stesso contesto del festival di Sanremo, in un ottica trapper, sia un palcoscenico ambìto perché da visibilità, e quindi voce, a chi culturalmente non ne ha mai avuta, da un lato, ed è, dall’altro, espressione di quella cultura mainstream che va “detournata”. Il detournament è un concetto utilizzato dai situazionisti francesi, ed è un metodo di straniamento che modifica il modo di vedere oggetti comunemente conosciuti, strappandoli dal loro contesto abituale e inserendoli in una nuova, inconsueta relazione per avviare un processo di riflessione critica. Pensiamo alla fontana-orinatoio di Duchamp. Nella storia semantica recente, significa utilizzare termini e contesti normativi e riappropriarsene per stravolgere il loro significato: pensiamo alla parola “negro” usata dalle persone di colore stesse o a “frocia” utilizzata dalla comunità trans e queer.
In questo senso, il palco del bel canto viene detournato in uno spettacolo che rompe coi canoni tipici di quel contesto.
Proseguo. Per capire come sono i testi medi di un cantante trap, vi sottopongo uno stralcio di una canzone di Sfera Ebbasta, forse il trapper più conosciuto al grande pubblico, anche per una sciocca polemica relativa al suo essere salito sul palco del Primo Maggio romano, a suo dire, “con due Rolex” e che, a proposito di non detournare un bel nulla, fa il giudice a Xfactor:
“Hey troia vieni in camera con la tua amica porca / Quale? Quella dell’altra volta / Faccio paura, sono di spiaggia / Vi faccio una doccia, pina colada / Bevila se sei veramente grezza, sputala / Poi leccala leccala / Limonatevi mentre Gordo recca / Gioco a biliardo, con la mia stecca / Solo con le buche, solo con le stupide / ‘Ste puttane da backstage sono luride / Che simpaticone vogliono un cazzo che non ride / Sono scorcia-troie / Siete facili, vi finisco subito / “Mi piaci, gioco hard” dubito / Di te tipa, che vieni a casa mia con la tua amica / Se non è una quinta amica”.
Mettersi una tutina attillata come Lauro a Sanremo, evidentemente, fa molto più scandalo di promulgare l’immaginario del maschio dominante, che denigra le donne. Capiamo quindi, forse, che in un tale contesto la performance di Achille Lauro prende senso (un senso molto importante!) all’interno del codice della trap.
È una performance significante perché all’interno di un codice fatto prevalentemente di denigrazione per le donne e per le identità di genere non binarie, di dominio dell’uomo bianco eterosessuale e “bomber”, questo è un bel sasso nella vetrina.
Il suo essere griffata Gucci non la rende più patinata di una qualunque altra esibizione trap (né fuori posto in una kermesse come Sanremo, dove una buona parte dell’hype risiede nelle mise di artisti e presentatori): è semplicemente fuori da quello schema.
È un maschio che si mette a nudo e che parla del disagio che prova nel suo mondo. Un maschio che sceglie una canzone che parla di violenza sulle donne e lascia lo spazio alla donna con cui duetta di esaltarne i passaggi più dolorosi, perché è un dolore con cui empatizza, ma del quale lascia la voce a chi lo subisce. Un uomo, quindi, alleato. Un uomo che esibisce la sua sessualità provocatoria, non definita, libera, baciando coperto di perle un uomo sul palco.
Vi riporto uno stralcio della sua autobiografia:
“Cinquantenni disgustosi, maschi omofobi. Ho avuto a che fare per anni con ‘sta gente volgare per via dei miei giri. Sono cresciuto con ‘sto schifo. Anche gli ambienti trap mi suscitano un certo disagio: l’aria densa di finto testosterone, il linguaggio tribale costruito, anaffettivo nei confronti del femminile e in generale l’immagine di donna oggetto con cui sono cresciuto.
Sono allergico ai modi maschili, ignoranti con cui sono cresciuto. Allora indossare capi di abbigliamento femminili, oltre che il trucco, la confusione di generi è il mio modo di dissentire e ribadire il mio anarchismo, di rifiutare le convenzioni da cui poi si genera discriminazione e violenza.
Sono fatto così mi metto quel che voglio e mi piace: la pelliccia, la pochette, gli occhiali glitterati sono da femmina? Allora sono una femmina. Tutto qui? Io voglio essere mortalmente contagiato dalla femminilità, che per me significa delicatezza, eleganza, candore. Ogni tanto qualcuno mi dice: ma che ti è successo? Io rispondo che sono diventato una signorina”.
Un maschio quindi, stiamo bene attenti, che parla della sua femminilità. Non di come vede la femminilità delle donne o la femminilità in generale, ma di quello che il suo stesso lato femminile porta a lui in termini positivi.
Non insegna alle donne come essere donne, ma dice che lui vive dentro di sé quel sentimento e che lo fa star bene.
Ci dice, partendo da sé come l’autocoscienza femminista insegna, che la mascolinità tossica esiste ed è sovrastrutturale. Non appartiene solo a un mondo o solo a un modo di essere, ma interseziona tutte le categorie, proprio perché è un’ideologia coloniale e, in quanto tale, un pensiero di oppressione.
In un passaggio del suo diario del maggio del 1976, la femminista Carla Lonzi scrive: “la risonanza adesso per me consiste nel miglioramento e approfondimento dei rapporti, della comprensione reciproca, più che del riscontro puntuale. Mi dà un senso di presenza nel mondo”.
È questo senso di risonanza che ho sentito attraverso le performance di Achille Lauro. Questo per me (ed è lì che trovo risonanza) è l’inizio del detournament di quel mondo. Un mondo non mio, non corrispondente ai miei valori e ai miei gusti musicali, ma nel quale le soggettività non conformi hanno cominciato a ribellarsi. E che non può, quindi, che vedermi complice.
Come diceva Roland Barthes, dopotutto: “La miglior sovversione non consiste forse nel distorcere i codici anziché nel distruggerli?”.