Ritornare alla madre

di Marco Adorni

Pubblichiamo l’intervento di Marco Adorni all’iniziativa “Scegli che uomo 6” del 25 novembre scorso, animata da Maschi che si immischiano sotto i Portici del Grano (ndr).

Per un uomo non è semplice prendere la parola in pubblico per parlare di violenza di genere. Egli deve superare una serie di costruzioni culturali che lo consegnano o al ruolo di esecutore testamentario della figura paterna di una volta o di rappresentante di una parte del mondo che ha esercitato per millenni dominio e autorità nei confronti dell’anima e del corpo delle donne.

Non è semplice. Ma è tutto ciò che abbiamo, noi maschi, per tentare d’invertire la tendenza all’accettazione del mondo come è, ovvero brutto, sporco e cattivo, e provare a cambiarlo. A partire da sé, cioè dal proprio essere maschio. Come ci ha insegnato il femminismo, bisogna partire dalla propria esperienza concreta e storicamente situata per tentare qualunque operazione pubblica che s’intesti l’obiettivo di assolvere a una qualche utilità culturale e politica e non sia mera affermazione del proprio narcisismo.

La prima cosa che va detta è che noi maschi siamo stanchi, anzi esausti, dell’idea che è necessario recuperare la funzione paterna se vogliamo ritornare a dare senso e ordine alla nostra vita individuale e collettiva. Stanchi di fingere che esista una figura di padre che storicamente non si sia data come strumento di oppressione di genere e di classe. Non mi riferisco, ovviamente, al padre concreto, più o meno buono, che ognuno di noi ha avuto. Ma alla figura pubblica del pater familias, del garante del buon ordine e buon decoro. Delle tradizioni avite, quelle per cui la donna deve saper stare al suo posto. Di quel potere della consuetudine e della conservazione che rende impossibile la trasformazione sociale e politica. Di quel discorso che annichila, in origine, la possibilità che le oppresse e gli oppressi possano unirsi in nome della giustizia sociale e dell’eguaglianza vera e sostanziale tra uomini e donne.

No, non abbiamo nostalgia di quella figura paterna e del principio di autorità che le è sotteso. Perché il fatto è che, nonostante non pochi intellettuali e persone comuni vagheggino, in modo più o meno consapevole, un ritorno ai bei tempi andati in cui il principio di autorità conferiva senso all’esistere («i padri devono ritornare a fare i padri», «gli adulti devono tornare a fare gli adulti», «non esistono più gli uomini di una volta», ecc.), la realtà è che il potere odierno usa strumenti che sono la versione 2.0 del paternalismo e del patriarcato. Oggi il potere è quello dei mercati e la sua forza è quella di nascondersi dietro la liberazione dei costumi e delle soggettività. Ma che cosa resta del desiderio dell’altro se l’altro è trasformato in oggetto? Oggi non c’è più il Grande Altro di Jacques Lacan a dominare il nostro immaginario ma il Grande Fratello: una figura di padre innovativa e moderna: una figura biopolitica incaricata di plasmare l’anima e i corpi in forma di merce. Tutto deve diventare scambio. Il suo genio consiste nell’imporre il godimento, nell’intimare la soddisfazione egotistica, il narcisismo di massa. La società dello spettacolo è questo: è l’intrattenimento come dovere ontologico, come imperativo categorico dell’essere sociale. E naturalmente, questa società, è l’osceno, nel senso di forza che nega l’esistenza di una scena sociale, umana, in cui uomini e donne possano riconoscersi, l’uno nell’altra, vicendevolmente. L’osceno nega la scena: nega la donna, nega l’uomo. Che divengono, così, perfetti estranei, l’uno all’altra.

Sono di una generazione che si è sorbita una lunga teoria di quelli che il femminismo definiva come «Padri osceni»: scorrono davanti ai miei occhi Silvio Berlusconi con le sue olgettine, Umberto Bossi con il gesto del maschio («noi della Lega ce l’abbiamo duro»), Donald Trump con i ricordi delle sue “conquiste”, ecc. L’osceno, si badi, non è solo per il contenuto amorale e sessista ecc. del loro discorso ma anche per il fatto che quel discorso elimina al maschio la possibilità di affermarsi diversamente sulla scena pubblica: non c’è spazio, nella società conformista, consumista e competitiva del turbocapitalismo degradato di questo ultimo trentennio per gli uomini miti, per gli uomini che rispettano la donna, per gli “sfigati” (Salvini dixit) che osano manifestare per la difesa dei diritti fondamentali di italiani e stranieri, donne e uomini svantaggiati. Il maschio o è vincente o è il nulla: nient’altro che una sorta di doppio del femminile, un doppio che si sbeffeggia, come ci si fa beffe del “frocio”, dell’effeminato, del “diverso”. L’osceno nega la scena alla diversità, a un maschio che si possa, voglia, debba emancipare dallo stato degradante a cui è consegnato. Lo spettacolo o è della libidine liberata o non è. Non c’è altra scena all’infuori dell’osceno.

Perché i maschi picchiano, violentano e uccidono le femmine?

Proviamo a chiederci attraverso quali canali, un giovane maschio, acquisisce consapevolezza della propria virilità in età adolescenziale, se non quelli della Rete, di You Porn e quant’altro, dove la violenza della sessualità prende il posto della sua costitutiva apertura all’intimità, dove l’esibizione del corpo in tutta la sua vulnerabilità prende il posto dello sguardo dell’affetto e della cura. Che cosa dice, al giovane maschio, del corpo femminile? E che cosa gli dice il confronto con i corpi e i falli degli uomini impegnati in atti la cui violenza simbolica riproduce, anzi anticipa, per intero, quella che tragicamente viene ricordata dalle cronache di questi ultimi anni?

La verità è che il femminile fa paura e di fronte alla paura agiamo la violenza. Perché la paura costringe a guardarsi dentro e magari dentro troviamo l’abisso, il vuoto, il nulla. A tanto ha portato il potere della civiltà dei consumi: alla consumazione del femminile, alla sua trasformazione in oggetto, corpo cavo, privo di quella incondizionatezza, di quella infinita potenza generativa che caratterizza l’esperienza del corpo di donna.

È ora di smetterla di cercare la figura paterna. Abbiamo già capito dove ci porta. Piuttosto, cerchiamo di rimettere al centro delle nostre vite il femminile, il materno. Nella consapevolezza che non dipende né dal sesso né dalla tradizione culturale. Ma dalla nostra volontà – nostra di uomini e di donne – di ritrovarci, insieme, nel grembo della madre.