di Giovanni Luzzini
So che la scrittura di questo testo pone una contraddizione con la tesi espressa, ma spero che mettendola per iscritto possa essere d’aiuto per stimolare una riflessione tra quelle persone bianche che si pensano (pensiamo) buoni alleati nelle battaglie antirazziste ma attualmente continuano (continuiamo) a essere parte del problema. Il primo spunto di riflessione è attorno al nodo della rimozione delle statue. Quando a Bristol i manifestanti hanno abbattuto la statua dell’eroe schiavista locale Edward Colston si è generato un effetto domino che ha colpito il mondo anglosassone.
A partire dalla rimozione/deturpazione di simboli che hanno retaggi schiavisti e coloniali, fino a contagiare le campagne di marketing delle company in quello che Oiza K. Obazui definisce “antirazzismo performativo” (articolo qui). Gli effetti di questa rilettura dal basso della storia coloniale schiavista dei Nord del mondo sono arrivati anche in Italia. Il dibattito e le azioni attorno alla statua di Montanelli sono state agli onori della cronaca per qualche giorno. Mentre un fronte trasversale di giornalisti e politici si sono dati gran da fare per difendere l’onorabilità del pater e l’intoccabilità delle statue, dal PD (alla faccia anche del “razzismo performativo”) a Forza Nuova, dal Giornale al Fatto passando per Repubblica. Ma se fino a questo punto è chiaro chi è antitesi, forse non chiaro chi è tesi.
Questo perché il variegato mondo dell’antirazzismo bianco italiano, abituato a un certo protagonismo, ha in qualche modo deciso di farsi carico della battaglia e soprattutto della narrazione attorno alla contestazione delle statue, imponendo il tema nello spazio di parola che faticosamente si stava ritagliando una più ampia (auto)riflessione su cosa voglia dire Black Lives Matter in Italia.
Questo momento in cui l’antirazzismo bianco italiano ha per l’ennesima volta colonizzato la narrazione e la lotta antirazzista in Italia sostenendo un’artefatta performatività è un problema di cui dobbiamo farci carico e su cui bisogna fare spietata autocritica. Crediamo che le persone interessate, le prime e seconde generazioni, le/gli afrodiscendenti, i/le figli/e dell’immigrazione non abbiano gli strumenti per sostenere le loro lotte? Crediamo di sapere di quali lotte necessitano meglio di loro stessi? Abbiamo introiettato così a fondo il colonialismo che abbiamo osteggiato? Se pensiamo che la rilettura dal basso della nostra storia sia un processo che riguarda anche noi perché prendiamo parola proprio ora che fioriscono e moltiplicano pensieri e azioni di chi vive il razzismo sulla sua pelle? Penso ai preziosi contributi di Igiaba Scego, Oiza K. Obazui, Esperance Hakuzwimana Ripanti, Djarah Kan, Aboubakar Soumahoro e tanti altri (per approfondire qui).
E, infine, siamo così abituati a non vedere e problematizzare il nostro privilegio bianco da non accorgerci di quanto ne abusiamo quando togliamo la possibilità di (auto)narrazione e rappresentazione di sé e dei propri desideri a coloro che questo privilegio non lo hanno? Non ci accorgiamo di saturare le piazze e le assemblee con interventi saturi delle nostre, e sottolineo “nostre”, proiezioni antirazziste? Perché apriamo vertenze attorno al nodo della rimozione delle statue se chi vive il razzismo in Italia, pur stigmatizzando, sta chiedendo altro? Perché continuiamo a pensare di potere eterodirigere tutto questo?
Purtroppo, l’assunzione del ruolo di salvatore bianco (c’è tutta una critica molto sviluppata sul tema del white savior) che aiuta il derelitto nero e che articola le parole in sua vece è introiettata a fondo ed è l’altra faccia del razzismo leghista. Il 6 luglio Mediterranea saving humans, che svolge un lavoro prezioso nelle acque del mediterraneo, pubblica una foto di “braccia forti e compassionevoli” di un marinaio (bianco) in tuta blu e mascherina che sorregge “un migrante subshariano scheletrico e terrorizzato”. In calce “la pietà dei mari”.
Se tutto questo effettivamente succede quotidianamente sulle rotte mediterranee, la scelta della sua narrazione e l’uso del corpo nero è una scelta di campo e riflette l’immagine eroica che ha di sé (buona parte) della galassia cosiddetta antirazzista. Ma l’antirazzismo bianco non è il salvatore di niente, nemmeno di sé stesso. Quindi, per una buona volta cerchiamo di essere dei buoni alleati, smettiamo di colonizzare l’antirazzismo proiettando i nostri desideri e diamo spazio alle voci che già esistono, anche quando non ci rappresentano a pieno. Perché il come si costruisce una battaglia antirazzista è più che mai sostanza.