di Igor Micciola
Chi si aspettava di vedere poco più dei soliti noti, irriducibili militanti di minoranze “sinistrorse”, è stato costretto a rimandare l’appuntamento con la propria soddisfazione. O rassegnazione, secondo i casi. Ieri pomeriggio, alle 18.00 in piazzale della Pace a Parma, centinaia di persone si sono riunite intorno allo striscione “We can’t breathe – Black Lives Matter”: nelle intenzioni degli organizzatori (Art Lab, Collettivo La Rage e Post) l’evento era pensato come un’assemblea pubblica antirazzista, per dare seguito a quella piazza del 9 giugno in cui migliaia si sono inginocchiati a pugno alzato.
Non un presidio o manifestazione, quindi, ma qualcosa di più raccolto e riflessivo, viene da dire, in cui confrontarsi con calma e provare a mettere insieme idee, esperienze, esigenze. Insomma, che non si chiuda tutto con un attestato di solidarietà e vicinanza, per quanto riuscito, a quello che sta succedendo in America. E, in effetti, i riferimenti doverosi a George Floyd e alla violenza della polizia negli Stati Uniti, ieri si sono fermati al minimo sindacale: il razzismo è un problema profondo, sconvolgente e sistemico anche qui in Italia, proprio qui a Parma, nonostante siano in tanti a minimizzare, a pensare che in fondo la nostra provincia non è mica il Minnesota.
A spiegarlo, con il microfono in mano, non sono stati gli italianissimi membri di partiti e movimenti della galassia extra-parlamentare, ma diversi “stranieri” di prima e seconda generazione. Diversi per vissuto, cultura, bisogni. Le virgolette su stranieri sono d’obbligo, non solo perché la parola mi mette in difficoltà, ma soprattutto perché chi ha accolto l’invito, si è messo in piedi al centro del cerchio e ha condiviso i propri pensieri con tutti gli altri, è qui da decine di anni, se non ci è nato. In molti degli interventi che si sono succeduti, infatti, a chiudere gli occhi sembra di ascoltare qualcuno che come te è nato e vissuto qui. La differenza sta in quello che racconta di sé: riapri gli occhi e Sara, una ragazza di 23 anni con la pelle scura e i capelli riccissimi che formano una grande aureola, ti spiega cosa significa essere donna e marocchina in questo paese. «Miei carissimi amici bianchi – dice Sara −, quando siete sorpresi delle storie di discriminazione che ci colpiscono, io ci rimango male: la vostra disabitudine a riconoscere gli atti di discriminazione nei nostri confronti è parte della nostra sofferenza. Il razzismo è sistemico. Lo ritrovi nei colloqui di lavoro, quando ti chiedono la tua cittadinanza anche se hanno davanti la tua carta d’identità: c’è scritto, leggi. Oppure, quante volte mi è capitato che qualcuno per strada mi mettesse le mani nei capelli… Ma chi cazzo sei? Dire che non badiamo al colore della pelle è una grandissima stronzata. Non esserne consapevoli significa che non riusciremo mai a risolvere il problema. Vi prego ascoltate davvero i vostri amici, smettetela di dire loro come si dovrebbero sentire davanti a un episodio di razzismo, smettetela di dire “forse stai esagerando”. Se ci mettiamo insieme sulla stessa barca e remiamo nella stessa direzione forse ce la faremo».
Il suo è il discorso più coinvolgente, ricco, urgente oltre che chiaro, insieme a quello di un’altra ragazza di origini africane (di 17 anni, va sottolineato): entrambe spostano l’asticella della riflessione non solo per la qualità del ragionamento ma anche per la quantità dei temi trattati. Ecco che, con disinvoltura, si passa dalla discussione sulla discriminazione etnica a quella sulla discriminazione di genere, in un’esposizione semplice, autentica, a volte imbarazzata (non c’è nessun vecchio lupo della politica qui), eppure stratificata. In un passaggio, addirittura si parla della discriminazione vissuta all’interno di una minoranza a sua volta discriminata, problematizzando ancora di più il ragionamento. Ma rendendo così ancora più chiara la diffusione trasversale di un modo di pensare e agire violento, che fa dell’aggressività e della prevaricazione qualcosa di cui andare fieri.
Poi, la più giovane delle due spiega, a chi se lo fosse perso, il significato del nome del movimento nato in Usa. «Con Black Lives Matter non vogliamo dire che le nostre vite valgono di più, ma solo che in questo momento sono le nostre vite a essere in pericolo, le vite dei neri, non certo quelle dei bianchi. Siamo noi a morire. Per questo contrapporre lo slogan “All Lives Matter” al nostro è una grandissima cazzata!». Con buona pace dell’Alt Right.
E meno male che ai giovani la politica non interessa. Forse non interessano i partiti che fanno le passerelle in televisione o gli sciacalli su Facebook. Ieri, all’ombra della Pilotta, ragazze e ragazzi sotto i trent’anni erano la maggioranza della platea e di chi ha preso in mano il microfono. L’obiettivo degli organizzatori è centrato e forse neanche loro si aspettavano tanto: I can’t breathe lo dice l’America di George Floyd così come quella Parma che ora non si può più fare finta di non sentire.