di Anna Giulia Della Puppa
Montanelli, ormai finalmente questa cosa è una dato assodato e conosciuto dai più, fu, oltre che un fascista impegnato nell’impresa coloniale d’Africa, uno stupratore e un pedofilo (e quindi un colono a tutti gli effetti). Nessuno dei suoi difensori si sogna più di dire che così non fosse. Tutti, piuttosto, invitano a “contestualizzare”: il periodo storico, la cultura del tempo…
Su questo articolo dettagliato di AfricaRivista si legge: “Lo sfruttamento sessuale dei minori è la silenziosa emergenza dei nostri tempi – affermano i responsabili di Acpf -. Questo fenomeno ha le sue radici nella povertà, nella disuguaglianza e nella discriminazione esacerbate da atteggiamenti patriarcali tradizionali e pratiche culturali come il matrimonio infantile e il trattamento dei bambini come proprietà».
L’Africa sta rapidamente diventando la nuova frontiera dello sfruttamento sessuale dei minori online, ma la legislazione e le misure di protezione dei minori non riescono a tenere il passo, è scritto nel rapporto. Ma è il turismo sessuale la minaccia più grande. «L’aumento del turismo sessuale è un’altra tendenza preoccupante. Le leggi che regolano lo sfruttamento sessuale nei viaggi e nel turismo in Africa sono deboli o inesistenti – è scritto nel rapporto -. Questo dà libero sfogo ai criminali intenzionati a sfruttare sessualmente i bambini. Il 90% dei turisti sessuali sono uomini, statunitensi, britannici, italiani, tedeschi, canadesi, coreani e cinesi, che prendono di mira Paesi con leggi deboli o poco applicate come il Sudafrica, la Nigeria, l’Etiopia, la Somalia, l’Uganda, la Tanzania, Kenya, Ruanda e Sudan».
È chiaro, quindi, che se è una questione di periodo storico o di mood culturale, questo ha lasciato degli strascichi ben pesanti, che si trascinano sino ai giorni nostri e che hanno a che fare con una certa esoticizzazione dell’altrA, del corpo diverso, desiderato ma al quale al contempo non si può accordare alcuna dignità di parità. Ce lo dicono anche le donne afrodiscendenti alle nostre latitudini, della stigmatizzazione che sono costrette a subire, attraverso gli inquietanti nomignoli attribuitegli dagli uomini bianchi, dai quali traspare tutta la carica sessualmente denigratoria verso corpi neri: “cioccolatino”, “pantera”, “animaletto”, come lo stesso Montanelli definisce la sua sposa bambina.
A tal proposito, pure, emerge chiara e lampante una totale mancanza (stavolta sì!) di “contestualizzazione”, nel non valutare che il corpo nero di una bambina, è sempre e comunque il corpo di una bambina.
Ce lo dice Marco Travaglio, nella sua strenua difesa di colui senza il quale sarebbe ancora e meritatamente a scrivere di cronaca locale: «I matrimoni misti fra italiani e donne indigene erano esattamente il contrario del razzismo. Il comportamento di Montanelli era esattamente il contrario del razzismo, perché un razzista con una donna di colore non ci prende nemmeno il caffè figuriamoci sposarla». E nel dire questo compie un’operazione gravissima perché non solo non comprende che i matrimoni forzati sono una violenza, che i matrimoni forzati con bambine si chiamano pedofilia e che il sesso all’interno dei matrimoni forzati si chiama stupro, ma anche non coglie o non vuole cogliere la differenza tra un agire neutrale e non sessualizzato come “prendere il caffè”, e un’azione coercitiva e coloniale come è il matrimonio forzato e il sesso -cioè lo stupro- all’interno di esso. Non sesso, neppure sesso violento, che può essere consensuale, ma violenza per mezzo del sesso. Un atto non neutrale e fortemente denigratorio.
Considerare il fenomeno coloniale e il madamato in continuità con il turismo sessuale e la pedopornografia dei giorni nostri, quindi, è non solo corretto, ma anche doveroso e il fatto che tutti questi intellettuali maschi e italianissimi non lo facciano o che trovino delle scappatoie per non farlo non fa che confermare il grossissimo problema che, in Italia come altrove, abbiamo con il prestigio intellettuale maschio e con il patriarcato negli ambiti del lavoro intellettuale.
L’anno scorso, durante un corteo, le compagne milanesi di Non Una Di Meno hanno vandalizzato con della vernice rosa la statua di Indro Montanelli ai giardini pubblici, questo lo sappiamo. Già in quel contesto era stato ripescato dagli archivi un glorioso botta e risposta tra Montanelli ed Elvira Banotti, femminista afrodiscendente di Rivolta Femminile, collettivo femminista romano fondato, tra le altre, da Carla Lonzi, nel programma “L’ora della verità” di Gianni Bisiach.
Durante la trasmissione, che tuttu ormai abbiamo visto, Montanelli, che con fare ammiccante parla della sua schiava bambina, viene asfaltato. Fu uno scontro importantissimo, che è stato taciuto e silenziato per tantissimi anni e dal quale la figura del grande intellettuale uscì illesa.
Quest’anno, sulla scia delle proteste di BLM che hanno portato anche alle nostre latitudini un epocale sollevarsi di (ma anche e soprattutto una epocale apertura di orecchie bianche alle) voci afrodiscendenti autoctone circa il razzismo di casa nostra, quel filmato di archivio è tornato fuori, con sommo godimento mio e di moltu, anche a fronte della reiterata azione contro la statua di Montanelli.
Chi scrive, va detto a scanso di equivoci, trova quell’azione, come le azioni analoghe che stanno avvenendo in tutto il mondo contro le statue di quei personaggi storici che sui libri di storia leggiamo essere i padri della nostra civiltà moderna e che sono invece, lo stiamo capendo, il vessillo dell’oppressione che la nostra così detta “civiltà occidentale” ha esercitato in giro per il globo, di una bellezza e di una ragionevolezza struggenti.
È la storia che viene agita dai suoi soggetti. Ora, però, c’è una questione importante che sta emergendo in questi giorni e che ha a che vedere sia con la questione della statuaria pubblica sia con quell’orgasmico video d’archivio. Elvira Banotti, femminista separatista, nota per le sue posizioni contro “le lobby gay” e decisamente transfobiche, che a seguito della sua esperienza in Rivolta Femminile, dalla quale uscì a fronte di screzi pesanti con Carla Lonzi e con le altre, divenne giornalista ed opinionista televisiva, fu un personaggio sicuramente complesso. Basti pensare che, a partire da quanto Carla Lonzi e le compagne di Rivolta Femminile teorizzarono magistralmente sulla donna clitoridea e la donna vaginale, arrivò a sostenere il totale disinteresse delle donne per l’atto sessuale penetrativo. Qualcosa che, se sicuramente vale per qualcuna, è di certo un assunto che a molte altre fa scappare una risatina.
Da giornalista de “Il Foglio” di Giuliano Ferrara, scrisse articoli infuocati e complessi contro il piano accusatorio della Pm Ilda Boccassini nei confronti di Silvio Berlusconi durante il “RubyGate”, che ne confermano sicuramente la radicalità e l’acume intellettuale, quando sostenne che aveva «vissuto con sofferenza la colpevolizzazione di quelle giovani donne ferite da brutali iniziative che le hanno inferiorizzate per poter “disegnare lo spettro” di un uomo strabordante! Un conflitto istituito da Ilda Boccassini che le ha utilizzate come “figure chiave” per perfezionare l’accerchiamento di alcuni uomini. Così costruendo su quelle giovani un simbolismo corrotto!». E questo è vero.
Erano tempi, lo ricorderete, in cui un’opinione pubblica formata soprattutto da donne, sotto il nome di “Se non ora quando”, sia era schierata dalla parte della Boccassini e contro Berlusconi e la sua considerazione delle donne come oggetti.
A posteriori possiamo dire che il grande limite di quel movimento fu di senso contrario ma precisamente in linea con il grande limite del discorso della Banotti sull’avversione delle donne per la penetrazione sessuale: quello di essere sovradeterminante nei confronti dei desideri e dei corpi delle altre donne, stabilendo una categorizzazione binaria di donne “per bene”, “non puttane”, alle quali era finalmente ora di dare ascolto e rilievo per il loro cervello e non per il loro corpo, e di donne “troie”, o tutt’al più “poverette da salvare da loro stesse”, perché col loro mercificarsi perpetravano l’ideale egemonico di una donna sessualmente sfruttabile, che intaccava e ricadeva su tutte.
Fu da questo inaccettabile binomio, che ricalca in modo inquietante quello maschile e patriarcale di “o suora o puttana”, che una parte del movimento femminista e tranfemminista italiano si rafforzò nelle sue posizioni a difesa dellu sex workers, contro lo stigma del lavoro sessuale e ragionando sulla sostanziale differenza fra tratta e lavoro sessuale auto-determinato, nella convinzione che fosse necessaria un riconoscimento dei diritti essenziali dellu lavoratrici e della loro possibilità di autorganizzarsi da un lato, e dall’altro mettendo in evidenza come il problema risiedesse nella sfera dello sfruttamento lavorativo tout court, piuttosto che nella piegatura moralistica attribuita al lavoro sessuale.
Come infatti ha scritto la grande sociologa e filosofa Silvia Federci: «È chiaro che il lavoro sessuale è un lavoro di sfruttamento violento. Ma non è l’unico. Il femminismo dovrebbe dare più possibilità a tutte le donne, non dire quale sia la migliore forma di sfruttamento. È una visione moralista, miope e che, alla fine, serve per dividere ancora di più le donne. Sostengo l’abolizione di tutte le forme di sfruttamento. Vendere la vagina non è peggio che vendere il cervello».
Ma le parole della Banotti, nel suo articolo contro la Pm Boccassini, ne rivelano anche la profonda omofobia e transfobia, e un pensiero saviourista rispetto alle sex workers: «Dove credete che trovi la propria ispirazione il “donnicidio” – quel “diritto” punitivo di antica memoria che oggi terrorizza mogli e fidanzate – se non dalla prostituzione del Femminile teatralizzata persino dai Trans che scempiano l’identità di tutte le donne?» e ancora: «E che dire della sodomia propagandata da trasmissioni come “La Mala Educaxxxion”, con la quale La7 inscrive la sodomia come pratica altamente erotica, suggerendola alle proprie spettatrici? È il clima sbrindellato delle ideologie che consente a Gay e Lesbiche di investirci tutti con l’accusa di “omofobia” mentre sono attentissimi a oscurare le proprie pregiudizievoli cicatrici emotive con le quali aggiornano il sedimentato, morboso allontanamento tra uomini e donne: cioè l’erotismo e la preziosità dell’Accoppiamento».
Perché ha senso ricordare tutto questo? Ha senso perché ci troviamo in un momento storico nel quale il movimento femminista si scontra con delle fortissime pressioni interne ed esterne che mirano alla parcellizzazione e alla disgregazione della lotta. Da un lato, un esercito di maschi cis-genere e per lo più eterosessuali, più o meno direttamente coinvolti nell’attivismo MRA pronti a tacciarci di essere “sessiste al contrario”, “odiatrici di figli”, “neoliberal all’arrembaggio per i posti del potere” quando esprimiamo i nostri desideri di autodeterminazione e libertà anche a discapito di una visione dei generi e dei ruoli ad essi connessi che perpetra i privilegi dei maschi bianchi occidentali, e dall’altro il fronte delle femministe radicali che negano sulla base di vissuti squisitamente personali la libertà di tuttu a vivere a proprio agio con la fluidità di genere che vogliono, invocando persino fantomatiche “Dee Madri” che agiscano con sortilegi per boicottare cortei transinclusivi, come è successo l’anno scorso col Pride di Bologna (leggi).
Ha senso perché, visto che ci è stato chiesto di “contestualizzare” l’agire del boia Montanelli, allora forse è il caso che ciò che venga contestualizzato sia il modo coerente con cui è necessario controbattere a questa nuova ondata di maschilismo cameratesco e da spogliatoio a cui stiamo assistendo. E allora va benissimo ricordare lo scontro Banotti-Montanelli, in cui la maschia italicità fascista del secondo viene messa alla gogna e mostrata per la schifezza che è dalle parole lucide e dirette di una donna afroitaliana, ma stiamo attente a non confondere quali siano gli obiettivi del femminismo, oggi come sempre.
Stiamo attente a costruire affinità e solidarietà politiche che siano il più inclusive possibili, ma che non abbiano paura di scontrarsi con chi nega quell’inclusività e che tengano in considerazione e mettano in discussione tutti i privilegi, di genere, di classe, di razza, così come quelli relativi alla salute mentale e alle abilità fisiche, che attraversano la nostra società ed anche il nostro femminismo.
Ricordiamo piuttosto che non sarà una “via Carla Lonzi”, una “piazza Carla Accardi” (per quanto sarebbe bello abitarci) o tantomeno un monumento a Elvira Banotti o alla piccola Destà a estinguere il debito che ha con noi la società patriarcale in cui viviamo.
Stiamo attente a non voler costruire statue come contraltare ad altre statue. Abbattiamole, piuttosto. Vandalizziamole.