di Cristina Quintavalla
Il verbo di Draghi impazza sui media mainstream: gli stati spendano senza limiti e vincoli per risollevare l’economia che rischia la depressione. Mercati, banche, imprese, classe politica ringraziano. Sembrerebbe un dietrofront rispetto a quanto l’uomo ha difeso durante il suo mandato in qualità di presidente della BCE, vale a dire la necessità di contenere il debito pubblico: i governi erano chiamati ad “assumere misure immediate e decise per assicurare la sostenibilità delle finanze pubbliche”, di mettere “sotto stretto controllo l’assunzione di indebitamento… e le spese delle autorità regionali e locali”, addirittura varando “anche una riforma costituzionale che renda più stringenti le regole di bilancio” (Lettera di Draghi e Trichet, agosto 2011).
E per rimanere strettamente aderenti ai dati di fatto, ecco la ricetta attraverso le parole stesse di Draghi: adottare “misure di correzione del bilancio…principalmente attraverso tagli di spesa”.
Quali? E a carico di chi? Eccoli: “intervenire ulteriormente nel sistema pensionistico, rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità”, attuare “una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego….e, se necessario, riducendo gli stipendi”, operare “tagli orizzontali sulle spese discrezionali”,[…] “riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva…, attuare forme di flessibilità dei contratti”.
Ma la chicca è questa: “È necessaria una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Questo dovrebbe applicarsi in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala”( ibidem, p.2).
Coloro che per effetto del coronavirus sono morti in ospedali che scarseggiano di personale medico e sanitario, di attrezzature, di finanziamenti alla ricerca e persino di reagenti per fare i tamponi, o nelle loro case, senza aver potuto ricevere un’assistenza adeguata, sono il portato di una riduzione della spesa sanitaria che in tutta Italia si è contratta ogni anno almeno di un miliardo. Il definanziamento e depotenziamento del SSN è servito a far pagare di più le prestazioni sanitarie ai cittadini e a favorire l’affermazione di forme di sanità integrativa privata, in mano a banche, assicurazioni, fondi di investimento, che puntano a lucrare su un pacchetto, quello sanitario, di oltre 150 miliardi di euro.
La preoccupazione principale di Draghi, espressamente dichiarata, era quella di sostenere la competitività delle imprese, in un contesto di aumento della concorrenza. “Assecondare le esigenze delle imprese” (parole sue), non dei lavoratori, dei pensionati, dei giovani senza occupazione certa e stabile, ai quali riservava il trattamento di cui sopra.
Tale obiettivo è quello stesso che viene riconfermato nel recente articolo di Draghi sul Financial Times. “Le perdite del settore privato – e il debito per colmare il gap – devono essere assorbite, in toto o in parte, dai bilanci pubblici. I livelli più alti di debito pubblico diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e sarà accompagnata dalla cancellazione del debito privato”.
Quindi lo stato deve: 1) assorbire nei suoi bilanci le perdite del settore privato; 2) aumentare in modo permanente il debito pubblico; 3) cancellare i debiti privati.
Allora uno stato può fare debito senza incorrere nella mannaia delle regole europee sul debito, i cosiddetti parametri di Mastricht? Senza incorrere nelle misure correttive, quali l’obbligo di adottare misure “lacrime e sangue”, che includono i tagli alle spese e i servizi sociali, ai trasferimenti dallo stato agli enti territoriali, le privatizzazioni di servizi – dalla sanità, all’istruzione, al territorio, ai beni comuni?
O può farlo solo quando deve farsi carico delle “perdite del sistema privato”?
Cosa significherebbe incrementare permanentemente il debito, stanti comunque gli attuali parametri sul rapporto debito/deficit-PIL, senza, vale a dire, cancellare definitivamente -non sospendere temporaneamente il Patto di stabilità- i trattati europei?
Una cosa è certa: fermi restando i vincoli dei trattati europei, l’aumento permanente del debito pubblico non potrebbe che risolversi in ulteriori colpi di scure ai diritti della maggior parte della popolazione, nella falcidie ulteriore delle risorse disponibili per la spesa pubblica e le politiche sociali, nell’ulteriore asservimento della forza lavoro, manuale e intellettuale, all’inverosimile, che verrà gettata nella precarietà più intollerabile, nella cosiddetta socializzazione delle perdite.
L’aumento del debito oggi in queste condizioni e a queste regole comporta che gli stati, dunque anche quello italiano, dovranno ricorrere sempre più all’indebitamento con banche, con fondi di investimento, ai tassi e alle condizioni decise dai mercati stessi, come imposto dai dispositivi voluti dalle istituzioni europee, che hanno costretto i paesi dell’UE a rivolgersi al mercato finanziario esterno, come fossero privati, per finanziare il loro debito.
Lo disse lo stesso Draghi nel corso di un’audizione al Parlamento europeo nel gennaio 19: «un debito pubblico elevato riduce la sovranità nazionale di un paese perché l’ultima parola nel giudicare i conti pubblici è affidata ai mercati”. E’ questo allora che propone oggi Draghi!
La speculazione delle banche che comprano con prestiti della BCE, come voluto da Draghi, a interesse tra lo zero e l’1 % i titoli del debito pubblico degli stati, che devono corrispondere tassi di interesse sino a 10 volte superiori, non ha avvantaggiato certo gli stati, né le piccole e medie imprese, né i cittadini, che di quel flusso di denaro hanno beneficiato ben poco.
La nuova ricetta di Draghi in realtà è quella stessa che ha posto a carico della collettività il salvataggio delle banche, che hanno beneficiato nella sola Italia di circa 13-14 mld di danaro pubblico.
La ricetta proposta da Draghi è diabolica: i crescenti e permanenti indebitamenti degli stati con le banche e la garanzia che gli stati dovranno fornire alle banche, che elargiranno finanziamenti alle grandi imprese private a costo zero, costituiscono una forma di sostegno senza precedenti al grande capitale finanziario.
Banche e imprese, ricordiamolo, erano già in crisi, ancor prima dello scoppio della pandemia, dalla Germania agli USA, passando per l’Italia: tendenza all’appiattimento della curva dei rendimenti, crediti deteriorati (587 mld di dollari), crescente indebitamento delle grandi società non finanziarie (nei soli USA + 41% in soli 10 anni), ricorso ai buyback, consistenti perdite del settore bancario (la DB nel II trimestre del 19 ha perso 3,5 mld , BNP Paribas 4,1 mld), decelerazione dell’economia mondiale ( lo scorso anno GE-4,7%, FR -1,3, Spagna -1,5 su base mensile) con caduta della produzione industriale, PIL stagnanti.
Come ha sottolineato Vladimiro Giacchè, “si può supporre che un’epoca sia giunta alla fine”.
Quale epoca? Quella in cui il capitale produttivo d’interesse sosteneva economia e profitti, favorendo una ipertrofia finanziaria come risposta ad un’insufficiente valorizzazione dei capitali, alla ricerca di tassi di rendita sempre più elevati.
In un mondo messo in ginocchio da una epidemia globale incontenibile e in cui sotto i nostri occhi sfilano i cadaveri disseminati lungo la strada – la fine delle politiche pubbliche, le privatizzazioni della sanità, dell’istruzione, dei trasporti, le devastazioni dell’eco-sistema, forme intollerabili di politiche estrattive e predatorie- si appalesa con crescente chiarezza il fallimento delle politiche neoliberiste.
La ricetta di Draghi per uscire dalla crisi è quella stessa che l’ha originata: conferire alla banche ulteriori stock di debito pubblico, trasferire il debito dai privati ai poteri pubblici (tra il 2008 e il 2018 è passato dal 62% all’86%), significa favorire l’espansione e l’estensione senza limiti e vincoli del capitale produttivo di interesse, quello che droga l’economia, alimenta bolle finanziarie e distrugge l’economia reale.