di Redazione
Un premio per il cinema a Venezia. Non dai lustrini e dai tappeti rossi della Biennale, però, ma da un piccolo e ambizioso concorso cinematografico. “Dentro il collettivo”, lungometraggio del parmigiano Lorenzo Melegari sul centro sociale occupato Art Lab, si è aggiudicato il premio come miglior documentario italiano al Retro Avant Garde Film Festival di Venezia. La prima proiezione è prevista il 7 dicembre all’interno del Laboratorio Occupato Morion di Venezia. «Il Retro Avant Garde – spiega lo stesso Melegari − è un circuito di festival che si svolge in diverse città del mondo tra cui Venezia appunto, New York, Il Cairo, Tulum, Bacalar. Lo scopo comune è di promuovere il cinema indipendente come forma d’arte libera e aperta. Missione che dovrebbe essere propria di tutti i concorsi di cinema, ma che molto spesso viene tradita a favore dell’etichetta, dell’apparenza».
Per il regista, questo è il motivo per cui «chi ama il cinema dovrebbe concedersi di frequentare altre piazze, altre situazioni, dove ciò che muove un autore non è il desiderio di notorietà o i guadagni garantiti dalle grandi produzioni – dice Melegari −. C’è anche chi fa cinema con un approccio diverso, perché ha l’esigenza, quasi il dovere di raccontare, con quell’esercizio della lentezza che dovrebbe essere requisito necessario di ogni opera artistica. “Dentro il collettivo”, non a caso, è il frutto di sette anni di lavoro, una tempistica impensabile per chi vuole monetizzare. E soltanto una piccola produzione indipendente avrebbe potuto ottenere la fiducia per avere accesso a situazioni e momenti delicati anche dal punto di vista legale».
Il documentario racconta la storia di Art Lab Occupato, centro sociale in Oltretorrente nato otto anni fa e che ha firmato diversi articoli su voladora. «Il racconto si concentra su un gruppo di studenti che nel 2011 ha occupato l’edificio di borgo Tanzi appartenente all’Università di Parma, abbandonato da 20 anni – aggiunge il regista −. Protetti da quelle mura, cambiare il mondo assieme sembra nuovamente possibile. In sette anni di occupazione, vediamo questi ragazzi creare molti progetti che hanno una finalità trasformativa della società, non si tratta di volontariato, ma di andare ad incidere nel concreto su alcune delle contraddizioni del sistema economico politico e relazionale vigente: la scuola di italiano per stranieri, la ciclofficina, la squadra di calcio antirazzista, la creazione di numerosi eventi culturali».
L’idea di base è di tentare qualcosa di inedito, ovvero raccontare per la prima volta un centro sociale occupato e farlo “dal di dentro”. «Seguire da vicino quello che avviene all’interno di uno spazio occupato e le dinamiche che portano alla costruzione di un’identità individuale e collettiva forte, che decide di porsi in maniera conflittuale con l’ordine sociale – continua Melegari −. Il centro sociale in sé è uno spazio fisico fatto di persone che costruiscono insieme la propria “idea di mondo” a 360 gradi e tentano di realizzarla nel concreto con progettualità e azioni antisistema. Lo stile più idoneo si è pensato fosse quello narrativo, preferendo raccontare il centro sociale seguendo i fatti che via via si dispiegavano, piuttosto che descriverlo, e mantenendo così un ritmo incalzante per tutto il film. Oltre ai fatti non c’è una voce narrante ma sono le testimonianze dei ragazzi stessi a fare da parti di raccordo. Anche questa scelta stilistica ha permesso di farne un racconto che partisse realmente da un punto di vista interno: cioè come gli attivisti vedono sé stessi e il mondo che li circonda».
Ma la reazione e la costruzione di un futuro diverso prevedono anche lo scontro. «Alcuni momenti direi che sono davvero adrenalinici, come per esempio durante l’occupazione dell’inceneritore di Parma e dell’Ospedale Vecchio. Atti forti, illegali, che suscitano clamore in città, riaprono il dibattito sulla salute e l’inquinamento da una parte e sulla speculazione edilizia dall’altra. Ma il credere fermamente in certi valori e perseguirli fino in fondo comporta anche dei rischi personali. Durante un atto di resistenza passiva negli uffici della multiutility Iren, alcuni ragazzi vengono identificati dalla polizia e portati in caserma. E lo sgombero di Art Lab diventa un rischio concreto. “Il conflitto è il sale della democrazia”, dice uno degli attivisti. Ma se questo è vero, l’interrogativo più pesante è: come porsi di fronte al potere nel momento in cui ci si vuole confrontare con esso senza correre il rischio di esserne fagocitati?».