di Cristina Quintavalla
L’imbarazzato silenzio della sinistra – per così dire − radicale, nei confronti del nuovo governo Pd-M5S, è stato rotto solo da qualche esternazione del tipo “si apre una grande potenzialità” (!!!) oppure “non è il governo dei nostri sogni, ma… l’unico possibile” (!!!). Al fondo un grande equivoco: rovesciare il governo M5S-Lega, sbarazzarsi di Salvini, toglierlo da un ministero-chiave, dal quale aveva il controllo di quanto si muoveva in mare, in terra, in cielo, non comporta ipso facto che la sinistra si faccia andare bene l’altra opzione di governo, ancor meno che la sostenga. Certo, qualsiasi altra opzione di governo non potrà che essere meno pericolosa, disumana e volgare della precedente, ma non tale da essere sostenuta come il rospo che, per il bene del paese, deve essere ingoiato.
È accaduto, tuttavia, qualcosa di paradossale: il Pd, fino alle elezioni europee penalizzato da un elettorato indignato, è diventato “rosso”. Com’è successo? Da una parte, ci sono i temi agitati dalla destra estrema: patria, identità, gerarchia, ordine, famiglia patriarcale in salsa vetero-machista, Dio e la Beata Vergine Maria, tutti chiamati – come nel fascismo e nel franchismo − a protezione del potere istituito e dei suoi uomini. Dall’altra, troviamo l’imbarbarimento della dialettica politica, la disseminazione di odio e violenza, le liste di proscrizione per coloro che, per le loro storie, origini, condizioni di vita, offendono il cosiddetto pubblico decoro (che esige perbenismo borghese, conformismo, edonismo sfacciato). E ancora il “sequestro di persona” ai danni di centinaia di esseri umani nel Mediterraneo, i decreti sicurezza, il Tav, la Flat-tax, lo Sblocca cantieri e la nauseabonda occupazione dello spazio mediatico. È stato tutto questo a ricolorare, paradossalmente, di rosso il Partito Democratico. In altre parole, sono resuscitati politicamente, come in uno specchio rovesciato, proprio coloro che, fino all’ultima tornata elettorale, sono stati fortemente individuati come traditori o addirittura nemici da elettori arrabbiati, alle prese con la difficoltà di arrivare a fine mese, di avere un lavoro, una casa, di pagare i debiti.
Qualcosa di simile a quanto accaduto durante le elezioni europee: meglio un’alleanza che andasse da Macron a Tsipras che l’avanzata ulteriore delle destre. È nato persino un sedicente governo giallo-rosso (?), con un M5S che da primo partito populista antieuropeista, è diventato un partito filo-europeista, che da partito complice delle politiche del precedente governo è arrivato a costituirne un altro, senza criticare il precedente, e con un Pd che, da sostenitore irremovibile delle politiche di austerità dell’UE e dei suoi piani di riforme strutturali, neoliberista convinto, sembra diventato improvvisamente il campione di una democrazia popolare, progressiva ed egualitaria. Come se il Pd volesse politiche sociali avanzate, più risorse al welfare, sostenesse la necessità di un forte intervento pubblico in economia, fosse contrario alle politiche di privatizzazione, contrastasse le politiche di austerity e di taglio della spesa pubblica imposti da Bruxelles, volesse abrogare il Jobs-act col suo mostruoso carico di licenziabilità, precarietà, ricattabilità del mondo del lavoro.
Al momento, il Pd non proferisce parola, poiché l’arrivo di tanta grazia − il ritorno al governo, dopo esserne stato cacciato dalla porta − è oltre ogni immaginazione. Ma non è il caso di dimenticare che lo stesso partito ha faticato non poco a togliersi lo stigma della sua lontanissima origine proletaria e comunista, ad accreditarsi come forza liberale e ad assicurare mercati, privati e istituzioni internazionali di essere fedele al libero mercato, al principio della concorrenza, alla remunerazione del profitto e dei processi di accumulazione capitalistica. D’altro canto questo governo è nato proprio in Europa, concepito durante le mediazioni di Conte contro le minacciate procedure di infrazione all’Italia, coltivato al G7 a Biarritz e sostenuto dalle cancellerie dell’Europa che conta. Salvini, che ora si spertica a dirlo, avrebbe dovuto tenere conto della pervasività delle istituzioni europee, di cui si diceva ostile, ma di cui non ha mai messo realmente in discussione i parametri di Maastricht.
D’altro canto nessuna crisi istituzionale può ormai avere sbocchi, né in Italia, né in alcun altro paese membro della UE, senza l’approvazione di Bruxelles e al di fuori delle direttive impartite dalle istituzioni comunitarie. Il cerchio si è richiuso dopo le elezioni europee: il dispositivo volto a riorganizzare i rapporti economici, sociali e politici a favore delle grandi oligarchie economico-finanziarie, viene assicurato proprio dalla subordinazione degli stati ai meccanismi europei di stabilità. Il nuovo governo italiano porta il marchio delle istituzioni e delle cancellerie europee, oltre che di Trump.
È proprio il governo Ursula, filo-europeo, liberista, costituito da partner che sembravano tra loro irriducibili, ad aver operato il miracolo di far diventare “rosso” il Pd, europeista il M5S, e daltonico Leu, che vede una patina di socialità in questo governo, nonostante sia stato escluso da ogni trattativa e da ogni partecipazione alla definizione di un programma. Oettinger, il commissario al bilancio uscente, si è detto certo che “si farà il possibile per facilitare il lavoro del nuovo governo italiano, quando entrerà in carica e per ricompensarlo”. Ora ci si aspetta dall’Italia “un governo pro-europeo che non lavori contro l’Europa”. Ed eccola, nella nuova Europa post elezioni, la nascita di un governo moderato, prono ai diktat di Bruxelles, con una piccola patina di socialità.
Poiché a stretto giro di posta saremo chiamati a votare per il rinnovo dei consigli regionali in diverse regioni italiane, pensiamoci bene prima di avallare nuovi governi Ursula in dimensione ridotta: il vero fronte antileghista si costruisce non con accrocchi tra ceti politici in crisi di identità e di rappresentanza, ma attraverso l’esercizio di una reale partecipazione popolare, capace di spostare i rapporti di forza, oggi tutti volti a favore delle classi dominanti, con lotte incisive, con la volontà di non voler abdicare al proprio ruolo nella difesa dei diritti e della dignità delle persone. Costruire un’opposizione forte, unita, ricca al suo interno di apporti teorici e di pratiche di lotta, è oggi il compito della sinistra.
Le promesse di ministeri o di assessorati, i compiacenti accordi sottobanco, le legittimazioni di comodo, che servono solo a confondere la gente e a conquistare posti di rilievo, non hanno più futuro. Come dire? Il re è nudo: conosciamo l’opportunismo politico, le sue scelte ciniche e ondivaghe, siamo certi che non disporrà di una prossima volta. Non si va al governo del paese o di una regione con chi ha difeso con le proprie scelte legislative gli interessi dei ceti dominanti, aiutandoli ad accrescere il loro sistema di potere. Questo deve dire a chiare lettere la sinistra e costruire un’alternativa proprio in opposizione a questo stesso sistema di potere.