di Francesco Antuofermo
Una vecchia storia indiana racconta di un mercante che teneva un uccello in gabbia. Dovendo recarsi in India, paese originario dell’uccello, gli chiese se desiderasse qualcosa da quel paese. L’uccello chiese di ottenere la sua libertà, ma il mercante gliela negò. Allora, l’uccello per ottenere la libertà adottò uno stratagemma… Si finse morto.
La paura è uno stato emotivo che consiste in un senso di insicurezza, di smarrimento e di ansia di fronte a un pericolo reale o immaginario. La sua intensità dipende dalle persone e dalle circostanze, ma assume il carattere di un turbamento forte e improvviso quando il pericolo si presenta inaspettato o, peggio, imminente. La paura per l’uomo è essenziale: lo mette in guardia, gli permette di percepire il pericolo e a volte di evitarlo. Non di rado la paura avvolge un’intera comunità e, come scrive Sunstein, si diffonde attraverso quei meccanismi che l’autore definisce “cascate di disponibilità”: si aderisce in risposta alla paura manifestata da altri. E allora la paura diventa collettiva.
Spesso la fortuna di molti politici è proprio legata alla paura collettiva e alla sua percezione. Nel nuovo millennio, infatti, la paura è stata utilizzata costantemente dai governanti per giustificare scelte restrittive in termini di diritti sociali o di ordine pubblico e questo nonostante i reati abbiano avuto significative flessioni nel corso degli anni. In sostanza, molti politici inseguono le paure della collettività. Soffiano, come si dice, sul fuoco della paura, per nascondere fini politici o peggio, interessi di bottega dell’industria, che la paura dovrebbe fronteggiarla. Si pensi al boom degli istituti di vigilanza, all’industria della videosorveglianza o a quella degli armamenti.
Anche la nostra città non si è risparmiata nulla in tema di sicurezza e gestione della paura sociale. Nel corso degli anni è cresciuto il numero delle imprese o agenzie di vigilanti e delle forze dell’ordine. Sono prolificate le telecamere e i sistemi di controllo. Tutto questo con il beneplacito delle persone spesso indifferenti rispetto alla continua perdita di libertà che questi sistemi comportano e allo spreco di risorse e denaro della collettività.
Nel 2010, ad esempio, l’allora sindaco della città, Pietro Vignali, in nome della sicurezza dei cittadini aveva inaugurato i nuovi “gabbiotti” della Polizia Municipale, collocati in alcuni punti ritenuti strategici per la sicurezza. Si chiamavano presidi fissi, o sportelli di front office. Come si leggeva nelle cronache di allora, di un attento reporter come Marco Severo, erano stati voluti dall’Amministrazione Comunale per “aumentare la sicurezza reale e percepita dei parmigiani”. Il primo esemplare venne inaugurato in piazzale della Pace, presente Vignali e l’assessore alla sicurezza Fabio Fecci, insieme al comandante della Municipale Giovanni Maria Jacobazzi. L’ex sindaco era così preoccupato della sicurezza della città che il giorno dell’inaugurazione poteva affermare soddisfatto: «Nonostante la crisi economica Parma continua a investire sulla sicurezza, per dare una risposta alle segnalazioni che arrivano ogni giorno al comando di via Del Taglio». E continuava: «Un vigile urbano sarà in servizio all’interno della garitta quattro ore al giorno, dal lunedì al sabato dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19. A sua disposizione, dentro la postazione, una poltroncina e un computer con stampante più una linea telefonica. La struttura è dotata di vetri antisfondamento, aria condizionata e una feritoia per il contatto con il pubblico».
Quindi, secondo le geniali intuizioni della giunta di allora, i vigili si sarebbero dovuti incarcerare dentro i gabbiotti, come l’uccello della favola indiana. La presenza di un presidio stabile all’interno, poi, avrebbe spaventato i criminali, ridotto i furti, le aggressioni, lo spaccio. Ma soprattutto avrebbe tranquillizzato la vecchietta di turno o il bottegaio intento a contare l’incasso della giornata. Sulla scia di queste convinzioni, le garitte vennero posizionate, tra gli altri, in via D’Azeglio, barriera Garibaldi e via Trento. Per la modica spesa di 120mila euro, che dieci anni fa non erano proprio bruscolini. Per la verità, qualche dubbio sulla effettiva utilità dei gabbiotti aveva colto lo stesso assessore Fabio Fecci. «Parma è una città sicura – rimarcava allora Fecci −, tuttavia serviva dare una risposta alla percezione di insicurezza della gente».
Con il passare del tempo, però, i gabbiotti cominciavano a essere disertati dagli agenti della Municipale, più portati a rinchiudere che a farsi rinchiudere. Nel giro di breve tempo caddero in disuso. Sempre vuoti, rotti e inutilizzati: 120mila euro di soldi dei cittadini andati in fumo. Volatilizzati. Uno scempio, uno spreco di denaro pubblico, collettivo. Alla fine, esasperato, era sceso in campo anche Il direttore di Confesercenti, Luca Vedrini, che in una nota si chiedeva: «Quanti Parmigiani hanno visto un vigile urbano dentro i gabbiotti della sicurezza? Cosa potrà mai servire un presidio stabile in aree centrali della città ampiamente frequentate?». Così, quest’importante progetto per la nostra sicurezza venne ben presto abbandonato. E i gabbiotti che fine hanno fatto?
Li abbiamo rintracciati nel cortile del magazzino comunale di viale Villetta, proprio dall’altra parte del cimitero. Ma non verranno sepolti. Aspettano ora una nuova vita, una qualche idea che però non dovrà avere più nulla a che fare con la sicurezza. I cittadini dormiranno tranquilli anche senza le garitte. E magari potranno riflettere sulla paura collettiva e su chi ci specula. E anche i vigili potranno smettere di preoccuparsi: dentro i gabbiotti non ci entreranno più. Potranno essere finalmente liberi, come l’uccello della storia indiana, senza adottare alcuno stratagemma: non avranno bisogno di fingersi morti.