di Potere al Popolo Parma
Con sconcerto leggiamo l’esultanza dei sindacati confederali all’accordo raggiunto sul Ccnl cooperative sociali, che riguarda all’incirca 400mila lavoratori in tutta Italia. Stiamo parlando di lavoratori che si occupano della cura di anziani, disabili, bambini e ammalati, cioè che lavorano tra le macerie di quello che una volta era lo stato sociale e adesso è il mercato delle prestazioni sociali: un mercato dominato dalle grandi cooperative, che di sociale non hanno nulla, e dalla distruzione del welfare pubblico, consumata in trent’anni di neoliberismo bi-partisan.
Il contratto, scaduto da sette anni, è uno dei peggiori e meno tutelanti esistenti e con questo rinnovo si conferma tale. A partire dal risarcimento per il ritardo, poco più che una mancia simbolica: 300€ lordi in due tranches, 200 subito e gli altri 100 a luglio. Anche l’aumento di 80€ lordi mensili, è erogato in tre tranches, di cui è vincolante soltanto la prima di 35€ a Novembre 2019. Le altre due sono demandate alla contrattazione aziendale o territoriale, lasciando in bilico anche quel poco di aumento concesso.
Già questi due dati imporrebbero quanto meno di non usare i toni trionfalistici dimostrati da alcuni esponenti dei sindacati confederali in questi giorni. Eppure, una qualche giustificazione di questo entusiasmo, a ben guardare, la possono avere. Leggendo l’articolato dell’accordo firmato pochi giorni fa, infatti, a fronte di aumenti risibili per i lavoratori, i sindacati hanno pensato di trattenere lo 0,1% della retribuzione annuale di tutti i lavoratori del settore, anche di quelli che hanno scelto di non iscriversi a Cgil, Cisl e Uil. Viene specificato che il tutto avverrà su base volontaria, ma stiamo ad aspettare cosa succederà, perché la regolamentazione di questo nuovo istituto è demandato a una contrattazione successiva, come tantissime altri capitoli importanti. Si tratta di una piccola percentuale, vero, ma che moltiplicata per il numero dei lavoratori rende la cifra consistente. Non sarebbe meglio vincolarla al risultato delle contrattazioni che questi dirigenti ottengono? Facciamo ironia, ma non c’è molto da ridere: questa “grande conquista” giustifica l’entusiasmo di dirigenti sindacali e dimostra una volta di più la loro distanza siderale rispetto ai lavoratori che pretendono di rappresentare.
Certo, possiamo notare che il criterio del riconoscimento del “premio” per il lavoro svolto da questi dirigenti è diverso da quello che hanno applicato nel contratto per quelli che dovrebbero tutelare. Con questo accordo, infatti, l’Ert (Elemento retributivo territoriale) va in pensione, e gli subentra il Prt (Premio di Risultato Territoriale). Può sembrare un dettaglio il passaggio da elemento retributivo, ossia una parte dello stipendio, al premio, ma così non è. Entrambi sono compensi che dipendono dal risultato delle cooperative, anche se con conteggi differenti, e sono contrattati su base territoriale. Ma mentre l’Ert era erogato in denaro ed era un elemento complementare del proprio stipendio, il premio è soggetto a una fiscalità differente, perché non entra nel computo del salario differito (Tfr, ad esempio) e può essere erogato in natura, ossia tramite elementi di welfare aziendale, con sgravi fiscali molto vantaggiosi per la cooperativa (meno per l’erario…). Se aggiungiamo che è stato ripristinato il limite dei 36 mesi per i contratti a termine, recentemente abbassato a 24, ed è stata blindata la rappresentanza sindacale ai tre confederali, sulla scorta di quanto avviene in tanti altri settori, ci troviamo di fronte ad un contratto che giudicare in modo molto negativo vuol dire usare un eufemismo.
Il convitato di pietra ai tavoli di questa trattativa è la Pubblica Amministrazione in ogni sua articolazione, che dovrebbe avere le redini del welfare pubblico. Un aumento di stipendio dei lavoratori del sociale andrebbe a rompere l’equilibrio economico tra austerità, privatizzazioni, pax sindacale, che ha caratterizzato gli ultimi vent’anni, in un giochino che giustifica le esternalizzazioni dei servizi pubblici, soprattutto in una regione come l’Emilia-Romagna. Questi aumenti andrebbero a ricadere anche sulle economie di Comuni e Regioni, che come vediamo anche nel nostro territorio, cercano di raschiare il fondo del barile mettendo in discussione diritti acquisiti in anni di lotte, piuttosto che mettere in discussione la religione delle grandi opere o quella dell’austerità. Per i lavoratori del sociale, come per chi fruisce di questi servizi, non si vedono tempi migliori. Ed è per questo che sosteniamo l’autorganizzazione dei lavoratori e tutto quel sindacalismo di base che sta raccogliendo il malcontento degli operatori. Una mobilitazione che non riguarda soltanto chi lavora nei servizi ma tutti noi perché riguarda i nostri diritti e la società in cui vogliamo vivere.