dal Comitato No Pillon
Nelle notti scorse sono comparsi, sui pannelli dedicati all’omaggio che Parma tributerà a Bernardo Bertolucci, dei piccoli manifesti: uno con l’immagine iconica di Maria Schneider in Ultimo tango a Parigi, e uno che immortala i due attori protagonisti insieme al regista sempre sul set del medesimo film. Le immagini sono accompagnate da una scritta “Violenza è… ogni volta che una donna è umiliata nella sua dignità”. Il fatto si riferisce, probabilmente, a ciò che lo stesso Bertolucci ammise nel 2011, quando Maria Schneider morì, e cioè che gli dispiaceva fosse morta senza che lui avesse potuto scusarsi di quell’umiliazione che, volutamente, per ragioni di miglior resa attoriale, le aveva inflitto.
Su questa polemica è stato detto molto e anche a sproposito. Noi non vogliamo sostenere le ragioni di quanti urlano allo stupro né diremmo mai che Bertolucci è uno stupratore. Sappiamo distinguere tra il piano della finzione e quello della realtà e sappiamo anche che Maria Schneider conosceva il copione e le scene che in esso erano contenute.
Tuttavia abbiamo più volte riletto le parole pronunciate da Bertolucci subito dopo la morte della Schneider e anche quelle rilasciate due anni dopo, nell’ottobre del 2013, a Parigi durante la masterclass sul cinema organizzata alla Cinemathèque française, ed è proprio partendo da quelle sue ammissioni che siamo d’accordo con questa protesta, pacata e silenziosa. Di fatto, questi piccoli manifesti altro non fanno che invitarci a riflettere su una cosa molto semplice: cosa è violenza? da dove nasce? quali sono i suoi confini?
Una donna giovane sale su un set sapendo di dover girare una scena di stupro. Improvvisamente si accorge che i due uomini adulti si sono accordati per una piccola variazione che, attraverso la sua umiliazione reale, l’avrebbe messa nelle condizioni di esprimere al meglio e in modo più realistico, la violenza vissuta dal suo personaggio. Anni dopo il regista ammette di aver voluto deliberatamente umiliarla. Non è anche questa una forma di violenza? Umiliare deliberatamente una donna, che, per la condizione subalterna in cui si trova ‒ giovanissima e in presenza di nomi importanti del cinema internazionale ‒ non osa in alcun modo rivendicare o rinegoziare gli accordi presi, non è violenza?
A discapito di quanti e quante questa storia la vorrebbero chiudere in un cassetto, una volta per tutte, ci pare significativo che di nuovo essa emerga in una semplice contestazione silenziosa. Perché? Perché i femminicidi non avvengono di punto in bianco ma sono la punta estrema di un crescendo di violenze ripetute, psicologiche prima ancora che fisiche, ed è più che mai legittimo chiederci da dove nasca la violenza. È doveroso riflettere insieme su quando un atteggiamento può essere considerato violento, anche in assenza di lividi e pugni.
Sappiamo che questa protesta verrà immediatamente silenziata dai soliti discorsi capaci di normare tutto, di giustificare ogni azione, in nome dell’arte, in nome delle necessità del set. Ma noi ci sentiamo di sostenerla, anche se ci sentiremo dire che confondiamo i piani e che stiamo applicando alla finzione norme della realtà. Sappiamo che ci sarà chi vorrà insegnarci che finché non ci sono lividi o penetrazioni forzate è fuorviante e inopportuno parlare di violenza.
Ed è a loro che rispondiamo: quando allora è opportuno parlare di violenza? Forse quando in ballo non vi sono “mostri sacri” del cinema, parmigiani d’eccezione, uomini bianchi, ma disagiati, migranti o figure marginali della società? O quando ormai la violenza si è già consumata?
E soprattutto: siamo sicuri che tacere non significhi avallare in qualche modo l’idea che una donna sia destinata a subire il contesto? Ad abituarsi alle regole dell’arte o a quelle sociali, anche quando sono umilianti? E che, in ragione dell’arte o della propria superiorità, un uomo possa umiliare una donna deliberatamente?
Noi non abbiamo paura di rilanciare questa riflessione, consapevoli che il nostro silenzio, ora, ci sembrerebbe complice di una logica che rinneghiamo.