di Matteo Masi
La «deviazione senza precedenti nella storia del patto di stabilità» (Pierre Moscovici dixit), rappresentata dal Documento di economia e finanza del governo giallo-verde, entrerà nella storia d’Italia degli ultimi trent’anni come il primo tentativo di cambiare decisamente rotta in termini di politica economica. Al di là del fatto che l’inaudita sfida alle istituzioni europee abbia o no un esito positivo per le forze che l’hanno voluta, oppure ch’essa possa rivelarsi una mera operazione elettorale in vista delle prossime europee, il punto è che, anche grazie alla «deviazione senza precedenti», gli italiani, esasperati da politiche economiche fondate su privatizzazioni, liberalizzazioni, tagli ai salari, flessibilizzazione del mercato del lavoro e, naturalmente, disoccupazione, cominciano ad accarezzare l’idea che sia auspicabile il ritorno allo Stato e alla possibilità di un confronto politico in cui i temi centrali siano la difesa dei diritti dei lavoratori e la giustizia sociale.
Nella manifestazione del 20 ottobre scorso sulle nazionalizzazioni dei settori strategici dell’economia del Paese, indetta da Usb e Potere al Popolo – a cui ha partecipato anche Senso Comune – si è voluto fare proprio questo: dare manforte e prospettiva politica a un sentimento di indignazione verso lo scempio perpetrato sui nostri territori e la vita di tutti dalla tirannia biopolitica della governance globale. Non una delle criticità evidenziate è attaccabile rispettando i vincoli e i trattati europei e in questo dato inaggirabile sta la rilevanza della questione nazionale oggi. L’Unione Europea non è forse stata costruita per disinnescare il conflitto sociale in modo da tutelare e promuovere il libero mercato? Che cosa sono la priorità della stabilità dei prezzi sulla piena occupazione, la liberalizzazione dei movimenti di capitale, il fiscal compact, la retorica del debito e le normative sugli aiuti di Stato, se non dispositivi di potere attraverso cui le élite europee hanno potuto schiacciare le classi subalterne sotto il loro tallone di ferro?
È dunque quanto mai utile, se non necessario, ricominciare a parlare di nazionalizzazioni e di centralità del soggetto pubblico, in primis proprio per contrastare le disuguaglianze e tutelare i soggetti più deboli che non possono essere lasciati alla mercé del mercato, come gli operai inermi di fronte all’avanzata inesorabile delle delocalizzazioni: sono di questi giorni la cessione di Magneti Marelli a un gruppo giapponese e la chiusura di Pernigotti (venduta ai turchi nel 2013), esito ormai scontato della cessione a “investitori” stranieri.
Ma allora ci chiediamo: è per questo che la Commissione europea ha bocciato la manovra e si è aperto il conflitto con l’Italia? È perché nella manovra sono contenuti provvedimenti che vanno nella direzione delle rivendicazioni che abbiamo elencato? La nostra risposta è no, anche se alcune misure sembrano dare un’inversione di rotta su alcuni temi sociali (riforma della Fornero e reddito di cittadinanza, di cui per ora sono stati fissati i tetti di spesa).
Come infatti ha commentato Stefano Fassina, in un intervento alla Camera dei deputati, preoccupano le scarse risorse aggiuntive messe sugli investimenti pubblici. C’è bisogno di concentrare risorse sugli investimenti e va riequilibrato il rapporto tra spesa corrente e investimenti.
Nessuno si può aspettare un effetto significativo sulla maggiore occupazione dall’intervento sui centri dell’impiego in quanto l’occupazione non è un problema di mancato incontro tra domanda e offerta di lavoro. Non c’è domanda di lavoro? Essa si può creare solo con maggiori investimenti pubblici e assunzioni mirate nella pubblica amministrazione. Inoltre, ci sarà uno 0,4% di minori spese previste nel 2019 e tagliare 8 miliardi avrà effetti deleteri per la situazione in cui siamo. Cosa si taglia? Qual è la composizione sociale di questi interventi? Questo impatterà sull’efficacia dell’intera manovra.
La cosa interessante è che, al di là di tali spunti critici, è stato lo stesso Fassina a difendere la manovra dagli attacchi della Commissione europea. Perché? Forse perché la posta in gioco è la stessa democrazia, ormai svuotata di qualsiasi significato a causa della costituzione formale ed economica dell’Unione Europea. Com’è possibile, infatti, pensare a una politica redistributiva e seriamente orientata alla difesa degli sfruttati (conditio sine qua non per portare avanti anche tutte le altre battaglie sociali), se si apre uno scontro di tale portata per un misero 2,4% di deficit? La realtà è che in questo momento si sta giocando una partita politica destinata a influenzare la vita del nostro paese per i prossimi anni. Se la Commissione europea continuerà ad attestarsi sulla linea dura e il governo italiano non cederà il passo, si arriverà all’apertura di una procedura d’infrazione per eccesso di deficit. Sarà la certificazione che l’Italia non ha più la sovranità economica ma anche l’innesco di una crisi sui mercati finanziari che causerà l’impennata dello spread e il rischio di attacchi speculativi. Se uno scenario di questo tipo dovesse avverarsi, la stabilità del governo verrebbe messa duramente alla prova, magari garantendo nuove manovre lacrime e sangue con un commissariamento più o meno mascherato dell’Italia, simile a quello già subito nel 2011, nella complicità o nell’afasia di gran parte della sinistra. Una soluzione che il popolo greco conosce bene.