di Andrea Bui
È l’unica persona processata per razzismo verso i bianchi ed è stata oggetto di accuse di antisemitismo, di omofobia, oltre che di razzismo al contrario. Il suo nome è Houria Bouteldja, autrice de I bianchi, gli ebrei e noi . Verso una politica dell’amore rivoluzionario e portavoce del Pir (Partito degli indigeni della Repubblica), nata in Francia nel 2005 sulla scia degli scontri nelle banlieus parigine a seguito della morte di tre ragazzi inseguiti dalla polizia. Le posizioni del Pir fanno spesso discutere e sono costate strali da tutto l’arco politico, senza distinzioni: dall’estrema destra all’estrema sinistra. I bianchi, gli ebrei e noi, pubblicato in Italia nel 2017 da Sensibili alle Foglie, con una preziosa postfazione di Marilina Rachel Veca, è un libro importante. E questo nonostante uno stile volutamente provocatorio, spiazzante e il riferimento divino come antidoto all’arroganza razionalista: è importante anche, e forse soprattutto, in un paese come il nostro, che non ha mai fatto i conti col proprio passato coloniale, a differenza della Francia. Ma prima di parlarne, va fatta una precisazione fondamentale: i bianchi, gli indigeni (come in Francia sono ufficialmente chiamati i popoli autoctoni delle colonie) e gli ebrei non sono categorie biologiche, non esprimono un determinismo soggettivo, ma sono “categorie sociali” che discendono da relazioni di potere effettive. Siamo lontani anni luce dalla teorizzazione di uno “scontro di civiltà” di segno terzomondista. L’obiettivo, infatti, è una denuncia lucida delle diseguaglianze su cui si basa effettivamente l’ordine mondiale, al di là degli eufemismi cinici a cui ormai ci siamo assuefatti.
Per la Bouteldja, il libro nasce dalla stessa angoscia di Antonio Gramsci per quel chiaroscuro che genera mostri, tra la morte del vecchio mondo e il nuovo ancora di là da venire. A spingerla nella sua riflessione, quindi, è l’urgenza dell’appello per la gravità del momento storico: il neoliberismo sta erodendo i livelli di benessere che anche alle classi subalterne bianche era stato garantito (a spese delle zone più povere del pianeta) e la risposta potrebbe essere quella di una feroce guerra tra poveri che non avrà vincitori. L’appello è rivolto ai “sacrificati dell’Europa dei mercati”, a quelle crescenti sacche di terzo mondo che troviamo nelle metropoli europee. La Rivoluzione sarà opera di una comunità legata dal progetto del proprio futuro, più che dalle sue radici. Non è una pietra tombale sul passato, anzi, proprio sulle ferite più dolenti del passato recente europeo l’autrice getta provocatoriamente manciate di sale.
Lo sterminio degli ebrei e il nazismo. Qui l’eurocentrismo della narrazione storica occidentale appare evidente e il punto di vista fa riflettere. La Bouteldja cita il poeta Aimè Cesaire. «Il nazismo lo si è supportato prima di subirlo, lo si è assolto, si sono chiusi gli occhi, lo si è legittimato: perché fino a quel momento esso era stato applicato soltanto sui popoli non europei». La Shoah non come parentesi di orrore nella storia europea, ma come demone del colonialismo che si abbatte sui suoi inventori. È la prospettiva di chi appartiene a quella parte di mondo che ha subito la dominazione europea e ne conserva viva la memoria. Se pensiamo che la giustificazione dell’esistenza dello stato di Israele poggia su quel crimine perpetrato ai danni degli ebrei europei, riusciamo a comprendere come possa essere vissuto dal mondo arabo uno stato insediato con modalità coloniali e che pratica apertamente l’apartheid.
Un’altra critica feroce è mossa al femminismo, certo la “sua versione dominante”, e provocatoriamente l’autrice sostiene: «il mio corpo non mi appartiene». In sostanza, dal suo punto di vista, il femminismo è un prodotto della società bianca: non nega le violenze insopportabili subite dalle donne che vivono in contesti oppressivi, ma viene sottolineato come la denuncia delle violenze maschili, da sola, sia un’illusione per l’emancipazione delle donne indigene. «Come possiamo essere libere noi − si chiede citando il Black Power − se non lo sono i nostri uomini?».
Gli indigeni, nelle parole della Bouteldja, ci chiedono di uccidere il “bianco” che è in noi: liberarci di questo storico fardello per uscire tutti insieme dalle barbarie, per costruire un umanesimo davvero universale, in cui l’Uomo non sia l’Uomo Bianco.
Quanto detto mi porta a una sola conclusione: questo è un libro salutare, perché fa discutere di temi centrali come l’immigrazione. Ed è un tema che non si può affrontare se non a partire dalle sue cause reali, ascoltando le persone in carne e ossa che attraversano il Mediterraneo, ascoltandoli davvero, anche quando ci viene detto quello che non vorremmo. C’è l’evidente necessità che da oggetti del dibattito politico, gli indigeni diventino soggetti politici, e ci aiutino a trovare la via d’uscita dal ghetto neoliberista.