A 40 anni dalla Legge Basaglia

di Andrea Davolo

Nel maggio del 1978 il parlamento approvava la riforma psichiatrica, la Legge 180, quella che poi più comunemente verrà chiamata Legge Basaglia, prendendo il nome dallo psichiatra ed intellettuale che con il suo lavoro ispirò anni di lotte sociali attorno al tema del diritto alle cure e alla salute. La riforma prevedeva la chiusura dei manicomi in cui in quel momento si trovavano rinchiusi, contro la loro volontà, 120.000 donne, uomini, a volte anche bambini con disturbi psichiatrici o che venivano anche semplicemente ritenuti di “pubblico scandalo”. Ad essere internati non erano solo pazienti psichiatrici che, destinati a vivere il resto della loro vita in un luogo di violenze e sopraffazioni, vedevano sparire per sempre la speranza di potersi riabilitare e di poter guarire, ma anche bambini che oggi potremmo definire iper-attivi o con difficoltà di apprendimento o donne classificate come “ninfomani” o “melanconiche”, semplicemente perché non uniformate alle aspettative sociali riguardo ai ruoli di moglie e di madre. Quella riforma fu il sottoprodotto di un movimento di rottura che denunciò la funzione non terapeutica, ma di controllo sociale e di repressione svolta dall’istituzione manicomiale. L’internamento nel manicomio era infatti una “morte di classe”, come affermava lo stesso Franco Basaglia, ovvero il destino a cui erano condannate le persone sofferenti di estrazione sociale proletaria, spesso consumate e rese vulnerabili da una vita di miseria e di alienazione sociale, vissuta nella fabbrica, nei campi o nelle famiglie autoritarie e patriarcali. Le lotte, negli anni precedenti alla riforma, portarono ad esperienze di apertura dei manicomi verso l’esterno. In molte località, tra cui Colorno[1], gli operatori della salute mentale, molto spesso assieme a collettivi studenteschi e ad operai in lotta, aprivano i cancelli dei reparti e cominciavano a sperimentare nuovi modi di curare, accompagnando gli internati che fino ad allora avevano vissuto la loro prigionia fatta di misure di contenimento fisiche e farmacologiche. Quel movimento non accettava l’idea di una riforma dei manicomi: il manicomio non doveva essere semplicemente gestito in modo diverso, ma doveva essere abbattuto. Per molti attivisti il superamento del manicomio era parte di un progetto rivoluzionario più complessivo che doveva segnare la fine dell’oppressione e dello sfruttamento di classe. Questo permise l’intreccio profondo con le mobilitazioni del movimento operaio.

La Legge 180 fu il segnale della forza delle lotte degli anni settanta e al tempo stesso però anche il prodotto della loro debolezza. L’istituzione manicomiale verrà abbattuta, ma in assenza di una rivoluzione sociale, ovvero di una trasformazione complessiva del sistema economico e sociale, le istanze di emancipazione delle lotte contro i manicomi saranno in parte depotenziate.

All’inizio degli anni settanta, nessuno dei partiti della sinistra e del movimento operaio agitava la chiusura dei manicomi nel proprio programma politico, tanto che lo stesso Partito socialista si fece promotore nel 1968 di una riforma molto parziale degli ospedali psichiatrici (Legge Mariotti), mentre il gruppo dirigente del Pci di Parma nel 1970 criticava apertamente il tentativo di aprire i reparti del manicomio di Colorno, condotto dallo stesso Basaglia, nel frattempo passato a dirigere l’ospedale colornese dopo l’occupazione degli studenti di Medicina avvenuta l’anno prima[2]. Tuttavia, tra il 1976 e il 1978 tutti i partiti presenti in parlamento, ad eccezione del Partito liberale e del Movimento sociale, dovettero fare i conti con il movimento presentando ciascuno la propria proposta di legge che prevedeva l’abolizione del manicomio. Il punto di caduta fu poi la Legge 180, il cui estensore materiale fu il democristiano Bruno Orsini.

Come per altre leggi di quel periodo, basti pensare alla 194 che verrà approvata solo poche settimane dopo, anche la 180 assorbirà le rivendicazioni delle lotte e dei movimenti degli anni settanta, depotenziandone tuttavia alcuni aspetti. Ci sono infatti voluti vent’anni perché i manicomi venissero completamente sostituiti da una rete di servizi territoriali come i Centri di salute mentale, i Centri diurni, i Servizi psichiatrici di Diagnosi e cura, tutti previsti nella legge del 1978, ma formalmente presenti in tutte le regioni solo dal 1996. Inoltre, i tagli alla sanità rendono quasi sempre impraticabile il progetto rivoluzionario per cui Basaglia e gli altri hanno lottato. Gli obiettivi del Ministero della salute, già molto modesti, prevedono la presenza di 40.000 operatori della salute mentale, a fronte dei soli 25.000 oggi presenti; in molte strutture sono presenti solo medici e infermieri, mentre mancano psicologi ed educatori; si ricorre ancora alla pura contenzione fisica nel 60% dei Servizi psichiatrici di Diagnosi e cura.  A giustificazione dei tagli ai servizi di salute mentale, troppo spesso trasformati in dispensatori di psicofarmaci, si tira dritti con l’ideologia che medicalizza la sofferenza psicologica, che la riduce a puro danno organico, tornando a nasconderne le radici sociali e ritornando a nuove e più sofisticate forme di contenimento e di controllo che passano anche attraverso una catalogazione dei disturbi mentali per cui normali transizioni della vita, come il lutto o la menopausa, vengono patologizzate[3] a maggior beneficio delle multinazionali del farmaco, pronte ad offrire la pillola adatta ad ogni problema.

Nessuno più oggi si azzarderebbe a fare un’esplicita difesa del manicomio, solo una manciata di reazionari. Ma delle battaglie di Basaglia rimane un’icona tutto sommato molto omaggiata, ma  resa innocua e disinnescata. Di strada rivoluzionaria verso l’emancipazione e il pieno diritto alla salute ne dovranno ancora percorrere le lotte sociali della prossima stagione.

 

[1] Cfr. Itala Rossi, “Pericoloso a sé e agli altri e di pubblico scandalo”. L’occupazione del manicomio di Colorno: una lotta contro la violenza istituzionalizzata, in M. Becchetti e altri, Parma dentro la rivolta, Punto rosso, Milano 2002.

[2] Al suo fianco, oltre agli studenti in lotta, Basaglia trovò Mario Tommasini, allora assessore provinciale alla Sanità e spesso in polemica con i vertici del suo stesso partito.

[3]Si vedano a tal proposito alcune osservazioni critiche di Paolo Migone in “Osservatorio psicologia nei media”.