a cura della Redazione
Le tragedie dovute a disastri ambientali sono così frequenti che ormai quasi non ci scandalizzano più. Siamo alla rassegnazione. Morti, feriti, danni economici che mettono in ginocchio intere regioni: passano gli anni ma continuiamo a tremare ogni volta che la pioggia si fa appena più insistente. Eppure, non mancano competenze ultra-specializzate, ingegneri di prim’ordine (quelli italiani, poi, sono conosciuti in tutto il mondo) e tecnologie più che performanti. Le chiamano “calamità naturali”. Ma non c’è niente di naturale nel rimanere con le mani in mano di fronte a rischi evidenti. Certo, è più facile vedere il mostruoso menefreghismo delle istituzioni quando ci tocca contare le vittime. Allora, per una volta, proviamo a fare le cose al contrario, proviamo a guardare in faccia i rischi attuali nel territorio parmense e cosa si può fare. Lo abbiamo chiesto a Emanuele Fior, naturalista e membro di Legambiente Parma, associazione che ha già più volte lanciato l’allarme. «Purtroppo, le emergenze climatiche sul nostro territorio sono molteplici – dice Fior − e intervenire su tutte è urgente, oltre che necessario. Una di queste è il degrado idro-morfologico del Baganza».
In cosa consiste?
«Nella seconda metà del Novecento, il torrente Baganza, così come la stragrande maggioranza dei corsi d’acqua italiani, è stato oggetto di fortissimi impatti a causa dell’uomo: su tutti l’escavazione e asportazione di milioni di metri cubi di ghiaia e inerti in genere. L’effetto principale è la canalizzazione del torrente, un aumento della velocità della corrente e la conseguente maggiore esposizione a ondate di piena dovute a piogge eccezionali o bombe d’acqua, eventi oggi sempre più frequenti a seguito dei cambiamenti climatici in atto. Si calcola che il Baganza abbia perso negli ultimi decenni il 50% della superficie esondabile, ovvero di quelle aree destinate ad accogliere l’acqua proveniente dalle piene di monte e utili a ridurre velocità e capacità distruttiva della corrente. Il torrente, perdute ingenti quantità di ghiaia, rettificato, privato dei boschi igrofili, stretto negli argini e urbanizzato lungo le sponde, è così andato incontro anche a un depauperamento delle sue funzioni, tra cui quelle di ecosistema filtro per gli inquinanti, di ricarica delle falde sotterranee, nonché di bellezza paesaggistica e di hot spot di biodiversità».
Ma non sono state annunciate le casse di espansione a Casale di Felino?
«Una volta ultimate, le casse di espansione di Casale saranno probabilmente risolutive per la gestione delle piene solo nel capoluogo, mentre non saranno sufficienti per mettere in sicurezza il nodo idraulico di Colorno, in cui si somma l’effetto del torrente Parma. E poi, va detto che le casse saranno ultimate e funzionanti solo tra alcuni anni, e nel frattempo nulla è stato fatto per migliorare la sicurezza idraulica del torrente nel tratto a monte di Parma, così come nulla è stato fatto tra Parma e Colorno».
Con quale tipo di intervento si dovrebbe affrontare il problema?
«In affiancamento alla cassa di espansione in costruzione, è necessario attuare una ampia riqualificazione naturalistica del corso d’acqua: in sostanza bisogna ridare spazio al torrente, consentendo che le ondate di piena si distendano e rallentino su vasti letti di ghiaia, che il Baganza torni a ricaricare le falde e a garantire la presenza di un ecosistema-filtro e la presenza di una cospicua biodiversità. Un intervento di questo tipo, oltre ai vantaggi già descritti, aumenterebbe la sicurezza idraulica, soprattutto per l’abitato di Colorno. Ma non bisogna fare l’errore di pensare a queste come affermazioni da “ambientalisti”, perché si basano sulle più moderne e accettate linee guide disponibili a livello internazionale».
Di chi sono le responsabilità istituzionali rispetto agli interventi che auspicate?
«A determinare uno dei problemi nella gestione dei corsi d’acqua sono proprio le competenze, che si distribuiscono caoticamente tra diversi soggetti: dai Comuni ad Aipo, fino alla Regione per l’erogazione di fondi e per le direttive generali. Certamente, il primo soggetto da chiamare in causa per interventi strutturali contro il degrado idro-morfologico del Baganza, è Aipo, anche gestore delle casse di espansione. Detto questo, però, il fronte del “No” alle nostre diverse richieste in materia è stato compatto e trasversale a tutte le istituzioni coinvolte. Nelle varie occasioni, ufficiali o meno, in cui non solo Legambiente ha segnalato la necessità di destinare alla riqualificazione morfologica del Baganza almeno una piccola parte dei 60 milioni di euro previsti per le casse, tutti gli enti gestori hanno risposto negativamente: su ognuno di loro gravano colpevoli responsabilità».
Baganza a parte, si può parlare di emergenza climatica nel nostro territorio?
«Bisogna innanzitutto distinguere tra le situazioni che hanno cause identificabili su scala locale, come la pessima qualità dell’aria nell’intera pianura padana, per cui va ripensata nel suo complesso la politica viabilistica: non possiamo permetterci le migliaia di morti all’anno a causa degli inquinanti da traffico veicolare come il particolato. Ma uno dei nodi cruciali rimane la gestione dei corsi d’acqua, che finora ha favorito il moltiplicarsi di alluvioni sempre più catastrofiche. Come quella proprio del Baganza del 2014. L’unica soluzione è ridare spazio ai fiumi. Un fiume più sano è un fiume più sicuro».
Quella che viene definita green economy potrebbe essere una risorsa per la messa in sicurezza?
«La green economy, se ben applicata, può essere una risposta nuova e più efficace a domande vecchie rimaste inevase. In ogni caso, ciò che manca più in generale è certamente la prevenzione, intesa come applicazione di conoscenze spesso disponibili, ma che raramente incontrano il favore della politica. Agire sull’emergenza è la modalità più diffusa, dati i notevoli ritorni mediatici. Serve una politica coraggiosa che pensi alle attività umane in simbiosi con l’ambiente. Serve capire se e dove si debba intervenire e quando, invece, bisogna lasciare spazio alla natura. Invece, si sfida il proprio stesso ambiente naturale ad ogni costo, solo perché l’imprenditore di turno ha del denaro da investire. In alcuni casi è anche peggio, come per speculazioni di vario genere, evidentissime come molte delle opere che oggi incontriamo a Parma e dintorni. Esempi recenti sono il Ponte Nord e, ancora più grave, il moncone dell’autostrada Tirreno-Brennero, che si ferma nella campagna più fertile al mondo. E solo per arricchire pochi, con uno sfregio permanente».
Secondo voi, perché le “grandi opere” riescono a mobilitare la politica, mentre la messa in sicurezza idrogeologica no?
«Gli interventi di messa in sicurezza, di riqualificazione e di recupero sono spesso lunghi, richiedono alte competenze e non garantiscono un ritorno d’immagine utile per le elezioni successive. Inoltre, si parla di interventi medio-piccoli sparsi capillarmente su un’ampia superficie, dunque poco visibili anche nei loro effetti: un evento negativo, e soprattutto le successive mosse per contenerlo, colpiscono media e opinione pubblica molto più di un intervento positivo, il quale passa quasi sempre sotto silenzio. Ma non è solo questione di visibilità: è innegabile che la logica dominante sia ancora quella della grande opera, nata nel dopoguerra, e considerata sempre utile proprio perché “grande” e apre a posti di lavoro. In questo senso va cambiato il paradigma, spingendo per un approccio scientifico che consideri costi/benefici su una scala più ampia e che comprenda anche la valutazione degli impatti su scala ambientale, il che non vuol dire solo “prestare attenzione all’alberello e al torrentello” (per citare l’attuale Ministro dell’Interno), ma anche e soprattutto alla salute della popolazione e al suo benessere a medio-lungo termine. Una politica che iniziasse ad affrontare in questi termini la gestione del territorio, imposterebbe anche una ristrutturazione dell’apparato pubblico, inserendo nuove figure e competenze. Ma soprattutto riorganizzando enti e soggetti vari per agire in una gestione quotidiana, mentre oggi si è ormai in gran parte strutturati per adoperarsi solo nelle emergenze».